Def: superbonus pesa su deficit, entro giugno nuovo verdetto Eurostat
I conti italiani sono sotto controllo ma la coda del superbonus rischia di pesare sulle stime delle finanze pubbliche. Eredità del passato, il credito edilizio al 110%, a quanto si apprende, potrebbe impattare più del previsto il deficit 2023 portando l'asticella anche oltre l'ultima previsione Istat del 7,2%. Al momento si tratta di ipotesi e simulazioni, visto che le stime ufficiali arriveranno solo con il Documento di economia e finanza che il governo dovrebbe approvare intorno al 10 aprile. Ma il calendario primaverile prevede altre date di rilievo per il bilancio: il 22 aprile, infatti, l'Eurostat dovrà comunicare i dati sui conti pubblici del 2023, mentre a maggio la Commissione Ue pubblicherà il suo outlook. Infine, entro giugno è atteso il verdetto dell'Ufficio di statistica europeo sulla classificazione dei bonus edilizi del 2024 sulla base delle nuove evidenze quantitative, e dirà se vanno contabilizzati tutti nell'anno di sostenimento della spesa (come già accaduto per il 2023) o se possibile spalmarli su più anni. Un passaggio cruciale perché se nel 2023 valevano ancora le deroghe ai vincoli di Maastricht, dal 2024 decadranno quindi, al netto della riforma del Patto, per il governo sarebbe auspicabile la seconda opzione.
Intanto il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti in vista del DEF ha parlato nei giorni scorsi di una crescita all'1% rispetto all'1,2% indicato nella Nadef dello scorso autunno. L'economia italiana risente di variabili più esterne che interne, per effetto dell'onda lunga della recessione tedesca dello scorso anno e delle crisi geopolitiche dal Medio Oriente, aggravate dalla crisi nel Mar Rosso e in Ucraina. La previsione del pil 2024 all'1% è più ottimistica di quelle delle principali istituzioni nazionali ed internazionali: la Banca d'Italia ha infatti stimato +0,6%; la Commissione europea e il Fondo monetario entrambi +0,7%.L’Italia, comunque, anche quest'anno farà meglio della Germania che per Bruxelles si fermerà a +0,3%, dopo la contrazione del 2023 (-0,3%). Le stime del governo saranno improntate come di consueto alla cautela e al realismo, confermando la volontà di tenere sotto controllo i conti nonostante la mina del superbonus che comunque è destinata ad esaurirsi. La stima sul deficit 2024 non dovrebbe molto discostarsi dal 4,3% previsto nel quadro programmatico della Nadef dello scorso autunno, e per il debito si punta a confermare il trend di stabilizzazione e poi lieve calo. Nella Nadef era stimato al 140,1% del pil nel 2024, al 139,9% nel 2025 e al 139,6% nel 2026. Un contributo per domare i conti dovrebbe venire dall'accelerazione delle procedure del Piano nazionale di ripresa e resilienza ma anche dall'atteso allentamento dei tassi di interesse da parte della Bce nella seconda parte dell'anno che darebbero nuovo impulso alla crescita.
Cala la fiducia dei consumatori in Italia e crollano consumi tedeschi. Panetta insiste: taglio tassi
“La congiuntura globale continua a essere debole. Il ristagno del commercio internazionale e l’incertezza sollevata dalle tensioni geopolitiche pesano sull’attività economica. La politica monetaria restrittiva della Banca centrale europea sta comprimendo la domanda e contribuisce, insieme al calo dei prezzi energetici, alla rapida diminuzione dell’inflazione. I rischi per la stabilità dei prezzi si sono ridimensionati e si stanno realizzando le condizioni per avviare un allentamento monetario”. Insiste sul taglio dei tassi il governatore Fabio Panetta, parlando alla presentazione del bilancio di Bankitalia, che proprio per la politica monetaria restrittiva avrebbe chiuso con una perdita di 7,1 miliardi. Le parole di Panetta seguono quelle di Piero Cipollone, membro italiano nel board Bce che ha preso il posto proprio del governatore di Bankitalia, il quale ieri ha sostenuto che “il processo di disinflazione è circondato da una minore incertezza poiché gli shock dal lato dell’offerta si invertono e i rischi per le prospettive di inflazione si sono bilanciati”. Per questo “siamo sempre più fiduciosi che l’inflazione convergerà al 2% entro la metà del 2025” e, in tal senso, “dovremmo essere pronti a ridimensionare rapidamente la nostra politica monetaria restrittiva”.
Il giorno prima, lo stesso Panetta, aveva dettato la linea da seguire: “nell'area dell'euro l'inflazione è in rapido calo e prosegue il suo avvicinamento all'obiettivo del 2 per cento, rendendo possibile un taglio dei tassi. Va in questa direzione il consenso che sta emergendo, soprattutto nelle settimane più recenti, nell'ambito del Consiglio direttivo della Bce”. Per Cipollone bisogna concentrarsi sull'economia ormai, più che sul carovita. Difatti, “se l’economia non si riprendesse, ciò eserciterebbe meccanicamente una pressione al ribasso sulla crescita della produttività o sull’occupazione”. In effetti, la stagnazione dell'eurozona non sta vedendo la luce in fondo al tunnel, soprattutto in Germania, dove le vendite sono diminuite dell’1,9% mensile a febbraio, peggio delle stime di mercato che indicavano un +0,3%, accelerando al ribasso dopo il -0,3% di gennaio. Anche in Italia, dopo 4 mesi, cala la fiducia dei consumatori. A marzo l’indice del clima di fiducia dei consumatori diminuisce da 97,0 a 96,5 mentre quello delle imprese sale da 95,9 a 97, come riporta l'Istat, che segnala per i consumatori un “deterioramento sia del clima personale (da 95,2 a 94,6) sia di quello corrente (l’indice cala da 97,0 a 96,0). Il clima economico rimane sostanzialmente stabile (da 102,0 a 101,9) e quello futuro registra un incremento marginale (l’indice passa da 97,1 a 97,2)”. In definitiva, riprendendo le parole di Panetta “più la Bce aspetta, peggio è”.
Fmi: Paesi inizino a ricostituire riserve bilancio, ma non un ritorno ad austerità
I Paesi inizino a ricostituire gradualmente e in modo credibile le riserve di bilancio e a garantire la sostenibilità a lungo termine del loro debito sovrano. È quanto auspicano dal Fondo Monetario internazionale il capoeconomista del Fondo, Pierre-Olivier Gourinchas, il responsabile del dipartimento affari fiscali Vitor Gaspar e il capo del dipartimento dei mercati monetari e dei capitali Tobias Adrian. “È più facile ricostituire le riserve di bilancio mentre le condizioni finanziarie rimangono relativamente accomodanti e i mercati del lavoro robusti”, commentano, mentre sarebbe “più difficile farlo quando costretti da condizioni di mercato sfavorevoli”. Sebbene sia necessario un sostanziale consolidamento fiscale, questo non è un appello all’austerità. Difatti, una virata troppo brusca verso il consolidamento fiscale potrebbe ritorcersi contro, spingendo le economie verso la recessione. Ciò che serve è una prima tranche credibile, seguita da passi successivi e graduali nella stessa direzione. In secondo luogo “per preservare la stabilità finanziaria, gli stress test dovrebbero tenere adeguatamente conto dell’impatto sulle banche e sui soggetti non bancari di tassi di interesse sovrani più elevati e di potenziali episodi di illiquidità del mercato”. In terzo luogo, le riforme strutturali non dovrebbero essere rinviate.
Se non sarà possibile ottenere miglioramenti nel saldo primario dei governi per compensare l’aumento dei tassi reali e la minore crescita potenziale, il debito sovrano continuerà a crescere. Ciò metterà alla prova la salute del settore finanziario. Tassi di interesse più elevati, livelli più elevati di debito sovrano e una quota maggiore di quel debito nel bilancio del settore bancario rendono il settore finanziario più vulnerabile. Inoltre, in un contesto di spazio fiscale limitato a causa dell’elevato debito, potrebbero aumentare le pressioni sulle autorità monetarie affinché tollerino deviazioni dalla stabilità dei prezzi per sostenere le finanze pubbliche o il sistema finanziario. Se ciò dovesse accadere a paesi di importanza sistemica, anche la volatilità dei mercati finanziari potrebbe aumentare, facendo aumentare il costo del finanziamento per le imprese e le famiglie a livello globale.
Istat: la stretta monetaria mette a rischio le imprese italiane
La stretta monetaria mette a rischio le imprese italiane. Lo rileva l'Istat nel rapporto sulla competitività. In particolare, rimanendo invariate tutte le altre variabili, a seguito del rialzo dei tassi d'interesse, nel 2022-2023, il 24,7% delle imprese “in salute”' o ''fragili'' potrebbe divenire “a rischio'” o “fortemente a rischio'”, soprattutto nel terziario. In generale, si aggiunge, nel periodo 2011-2022 le condizioni del sistema produttivo si irrobustiscono: la quota delle “in salute” aumenta ogni anno (anche nel 2020) fino a superare, nel 2022, il 37%. Il loro peso in termini di occupazione e valore aggiunto raddoppia in quasi tutti i settori.
Le classi “a rischio'” e “fortemente a rischio”, invece, passano dal 34,1% del 2011 al 20,4% del 2022; le seconde, che mostrano una probabilità di fallimento nei successivi dodici mesi nettamente più elevata rispetto alle unità delle altre classi, passano dal 19,9% del 2011 al 10,4% del 2022 anche per effetto del processo di selezione operato dalla crisi del 2011-12. La pandemia non ha interrotto tale processo: nel 2019-22 i casi di entrata (downgrade) nella classe “fortemente a rischio” hanno continuato a diminuire; quelli in uscita (upgrade), dopo il picco favorito dagli aiuti nel 2020, sono tornati ai livelli pre-crisi.
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