In Europa è battaglia sul Recovery Fund, cresce fronte del No
Il Recovery plan arriva ufficialmente sul tavolo del Consiglio Ue e l'atterraggio è piuttosto turbolento. Il fronte dei contrari è sempre più ampio, ora abbraccia falchi del Nord, frugali e Visegrad. Dall'Olanda all'Ungheria, insomma, la barricata è unica e le motivazioni diverse: ora non protestano solo i Paesi storicamente contrari alla mutualizzazione delle risorse e dei debiti, ma anche quelli che vorrebbero più aiuti per sé stessi e mettono in discussione il criterio di distribuzione escogitato da Bruxelles che assegna la maggior parte dei fondi a Italia, Spagna, Polonia e Grecia. Tocca ai ministri dell'Economia dei 27, riuniti nel primo Ecofin sul Recovery plan, piantare i paletti che i leader proveranno a rimuovere nel vertice in videoconferenza fissato per il 19 giugno, anche se l'appuntamento, già si sa, sarà solo il passaggio intermedio verso un accordo che tutti si aspettano verso la metà di luglio, sotto la spinta della presidenza tedesca di turno della Ue. “La proposta della Commissione è un compromesso equilibrato e non deve essere ridimensionata”, avverte il titolare dell'Economia Roberto Gualtieri. Il primo confronto tra i Ministri è quindi più un modo per ribadire le proprie linee rosse piuttosto che l'inizio di un negoziato.
Quelle dell'Olanda sono sempre le stesse, ma ora sono più chiare: il Governo le ha messe nero su bianco in un documento per il suo Parlamento. Chiede una forte condizionalità, ovvero vuole che il Recovery fund sia utilizzato per attuare le riforme strutturalichieste dalla Ue nelle raccomandazioni, in particolare quelle “per rafforzare i fondamentali economici, per esempio riducendo il debito, riformando le pensioni e migliorando la capacità amministrativa”. L'Olanda è poi contraria alle sovvenzioni. Il ministro austriaco delle Finanze Gernot Bluemel ha addirittura definito le sovvenzioni “una valutazione sicuramente sbagliata” da parte di Bruxelles perché “oggi dobbiamo sapere come e da chi verrà rimborsato il debito” previsto con gli aiuti a fondo perduto. E ha ribadito che “il pacchetto complessivo non è accettabile” da Vienna né “in termini di volume, ma anche in termini di contenuto”. C’è poi un altro aspetto sollevato anche dalla Finlandia, oltre che dall'Olanda: il sospetto è che gli aiuti non vadano davvero alle economie provate dal virus, ma a chi i problemi economici li aveva già prima dell'emergenza sanitaria. Ad esempio Polonia e Greciache non hanno avuto molti casi rispetto al Belgio, che invece è il Paese con il maggior numero di morti in proporzione. Contro il Recovery plan di Ursula von der Leyen all'Ecofin si schiera anche l'Ungheria, che attacca duramente Italia, Spagna e Grecia.
Se il Covid tornasse a colpire il Pil italiano crollerebbe del 14% secondo l’Ocse
L'Ocse vede nero sul futuro dell'economia italiana. Complice la seconda ipotetica ondata di pandemia negli ultimi mesi dell'anno che potrebbe appesantire senza limiti il già compromesso stato di salute dei conti pubblici italiani e, ancora di più, dell'economia reale. Ipotesi tutt'altro che remota visto che appena alla vigilia il presidente francese Emmanuel Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel con altri quattro membri dell'Unione europea hanno inviato una lettera alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen per chiedere che l'Ue si prepari alla prossima ondata della pandemia da coronavirus. I numeri indicano comunque una situazione drammatica già ora. Anche senza un ulteriore aggravio, gli indicatori fotografati dall'organizzazione internazionale sono impietosi. Il Pil dell'Italia dovrebbe crollare del 14% nel 2020 prima di risalire del 5,3% nel 2021 nel caso in cui ci dovesse essere una seconda ondata di virus. Se si riuscirà invece a scongiurare il ritorno del nemico invisibile, il prodotto interno lordo italiano dovrebbe comunque calare dell'11,3% quest'anno per recuperare il 7,7% l'anno prossimo.
Le prospettive economiche dell'Ocse parlano poi di un rapporto deficit-Pil dell'Italia che dovrebbe schizzare dall'1,6% del 2019 al 12,8% del 2020, per poi riscendere al 9,7% nel 2021, sempre nella malaugurata ipotesi di una seconda ondata di virus entro la fine dell'anno. Nel caso in cui invece non ci dovesse essere una seconda ondata, il rapporto deficit-Pil potrebbe passare dall'1,6% del 2019 all'11,2% del 2020, per poi riassestarsi al 6,8% nel 2021. Il debito italiano resta in ogni caso un allarme tra i più preoccupanti. I numeri fanno in ogni caso riflettere: nel caso di una seconda ondata epidemica entro la fine dell'anno il debito pubblico dell'Italia passerà dal 134,8% del Pil del 2019, al 169,9% del 2020, per poi ritornare al 165,5% nel 2021. In assenza di questa recrudescenza lo stesso indice passerà dal 134,2% del 2019 al 158,2% del 2020, per poi riscendere al 152,2% l'anno prossimo. Oggi ci troviamo in piena crisi mondiale: sanitaria, economica e sociale, la più grave che nessuno di noi abbia mai conosciuto, ammette il segretario generale Miguel Angel Gurria. “Sul fronte economico, avverte, la riduzione del 6% del Pil mondiale che prevediamo nel 2021 supera ampiamente tutte le riduzioni verificatesi negli ultimi 60 anni dalla creazione dell'Ocse”.
La seconda ondata del Covid fa paura, le Borse crollano
Giovedì nero per le borse. Il timore di una seconda ondata di coronavirus e il quadro difficile dipinto dalla Fed per l'economia americana affondano le piazze finanziarie mondiali e il petrolio. L'Europa chiude in profondo rosso bruciando 328 miliardi. Parigi crolla del 4,71%, Francoforte del 4,46%. Piazza Affari chiude in calo del 4,81% e vede andare in fumo 21,6 miliardi. Tonfo anche per Wall Street, che archivia la sua peggiore seduta dal 16 marzo. Il Dow Jones chiude in calo di oltre 1.800 punti, arretrando del 6,90%. Il Nasdaq crolla del 5,27%, mentre lo S&P 500 cede il 5,90%. Ad agitare i mercati è la situazione coronavirus in Brasile e una possibile seconda ondata negli Stati Uniti, dove ormai è stata superata la soglia dei 2 milioni di casi con oltre 111.000 morti. In 21 stati americani il numero dei contagiati è in aumento e particolarmente colpiti sono quelli che per primi hanno riaperto dopo il lockdown. L'avvertimento del Fmi sul rischio di 100 milioni di nuovi poveri si va ad aggiungere all'allarme dell'Ocse e alle stime caute della Fedsulla crescita e soprattutto sul mercato del lavoro. Previsioni, quelle della banca centrale americana, che trovano conferma nel nuovo aumento delle richieste dei sussidi alla disoccupazione, saliti di altri 1,5 milioni. “La Fed resta preoccupata per la traiettoria della ripresa. I rischi legati a nuove ondate di infezioni, alle prossime elezioni, alla debole ripresa globali e alle tensioni commerciali" complicheranno probabilmente la strada della ripresa, affermano gli analisti. La preoccupazione sull'economia mondiale innesca così un'ondata di vendite sui mercati, dalla quale non si salva il petrolio, che arriva a perdere oltre il 10% a New York temendo una domanda ai minimi ancora per diverso tempo. Un tempo tutto da quantificare per una ripresa che appare ancora lontana.
La produzione ad aprile è calata del 42,5%
Ad aprile l'industria italiana ha toccato il fondo, con un tracollo del 42,5% rispetto al 2019. Una cifra che dà la misura dell'impatto economico dell'epidemia. L'Istat mai aveva registrato una caduta simile. Senza la farmaceutica e l'alimentare sarebbe andata ancora peggio. Se il secondo trimestre inizia tutto in salita, compare però un segno più, anche se flebile, davanti alla produzione energetica. Preludio di un maggio, prospettato da un po' tutti gli analisti, in ripresa. Già mese su mese si nota, infatti, un rallentamento della contrazione di qualche punto percentuale: il calo rispetto a marzo si ferma al 19,1%. La crisi che stiamo vivendo tuttavia è diversa dalle precedenti. Anche per i tempi. Aprile è stato un mese di lockdown pieno. Per maggio le attese sono di un rimbalzo a doppia cifra a livello congiunturale, con una riduzione meno ampia dell'ammanco su base annua. Certo, il 2020 è compromesso, visto che solo nei primi quattro mesi l'arretramento è del 18,7%. Non si potrà fare troppo affidamento sull'export, con il Nord Est che nel primo trimestre ha accusato il colpo più duro, che da solo spiega la metà delle perdite nazionali sul fronte delcommercio estero.
Molto dunque dipenderà dai consumi interni, ovvero dai comportamenti delle famiglie. Ma c’è anche l'incognita lavoro e i dati aggiornati dall'Istat raccontano come solo nei primi tre mesi dell'anno il buco nelle ore lavorate sia stato pari a oltre 1,6 milioni di unità full time. Ora gli ammortizzatori sociali e i rinforzi varati dall'esecutivo per fronteggiare l'emergenza hanno impedito che ciò si traducesse in un'emorragia occupazionale. Tra gennaio e marzo i posti di lavoro si sono ridotti in misura assai meno forte (-0,2%) rispetto alle ore lavorate (-7,5%) o alle unità di lavoro intese, in termini statistici, come posizioni fittizie impiegate a tempo pieno (-6,9%). Insomma tutto è collegato, i lavoratori sono rimasti a casa nel momento in cui le fabbriche hanno chiuso. Ed è stato così per la stragrande maggioranza del comparto del tessile, che ha visto ad aprile la produzione ridotta dell'80,5% su base annua. Dello stesso ordine di grandezza il tonfo per i mezzi di trasporto, con gli autoveicoli che cedono tutto, -100% nel confronto mensile. Pesa anche il dimezzamento subìto dal comparto dei macchinari, un pezzo fondamentale dell'industria italiana. Rispetto ad aprile dello scorso anno non c’è voce che si salvi. L'unico segno più è rispetto a marzo e si registra per la produzione dei farmaci (+2,0). Regge, poi, l'alimentare (-0,1%). Ma non c’è da rallegrarsi, la perdita è stata sì più contenuta, ma non per questo da sottovalutare, tiene a precisare Federalimentare. La luce in fondo al tunnel sta nel +0,7% congiunturale del macro-comparto dell'energia.
Scarica la settimana economica