Il centrodestra è unito: Berlusconi, Salvini e Meloni di nuovo insieme sul palco
Dopo quasi mille giorni Giorgia Meloni, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini si ritrovano uniti a piazza del Popolo, a Roma, per l'evento conclusivo della campagna elettorale del centrodestra. Lo stesso era capitato a Ravenna, oltre due anni fa in occasione delle regionali in Emilia-Romagna. Allora finì con la sconfitta di Lucia Borgonzoni, mentre stavolta la vittoria sembra davvero a portata di mano. Di certo, la storica piazza romana conferma che ormai i rapporti di forza all'interno della coalizione sono cambiati. Berlusconi e Salvini sembrano fare da spalla alla Meloni, e anche il colpo d'occhio che restituisce l'evento racconta di una prevalenza di bandiere dei Fratelli d'Italia rispetto a quelle di Lega e Forza Italia. La photo opportunity, con tutti i leader della coalizione, arriva subito, a inizio manifestazione (che comincia con oltre un'ora di ritardo) anche perché dopo gli interventi di ciascuno rimane sul palco solo Giorgia Meloni che chiude il suo intervento sulle note di Su di noi di Pupo. Né il leader di Forza Italia né il segretario della Lega sono rimasti dopo il loro intervento (di 15 e 20 minuti).
Davanti a una piazza gremita solo in parte (4-5 mila le presenze) è stato il fondatore del centrodestra Silvio Berlusconi a rompere il ghiaccio “Siamo in tanti e sventolano tutte insieme le nostre bandiere, con quelle del nostro grande paese, l'Italia. Sono qui perché siamo uniti, siamo la maggioranza vera del paese” assicura il Cav, sottolineando che “l'Italia non vuole essere governata dalla sinistra. Abbiamo un grande futuro da realizzare insieme, in cui l'Italia possa riprendere la strada della crescita e del benessere”. Anche Matteo Salvini batte sul tasto dell'unità della coalizione “Siamo qui per prendere l'impegno a governare bene e insieme per cinque anni”, dichiara prima di mettere nel mirino le cancellerie europee che non vedono di buon occhio un governo italiano di centrodestra: “Non cambieremo collocazione internazionale. Siamo e rimarremo nella famiglia dei paesi liberi, democratici. Non siamo al soldo di nessuno, ma voglio governare un'Italia che venga rispettata, che vada nel mondo a testa alta senza prendere ordini da nessuno. Sono stufo di sentire che da mezzo mondo spiegano come devono votare gli italiani. Si mettano il cuore in pace a Berlino, Parigi e a Bruxelles. Andiamo a vincere e per cinque anni governiamo insieme”.
Giorgia Meloni, dopo essere stata presentata da Pino Insegno, occupa la scena per oltre mezz'ora mandando un messaggio chiaro al centrosinistra: “Gli unici che hanno paura sono loro perché hanno capito che sta per finire il loro sistema di potere. Noi siamo pronti e lo vedrete il 25 settembre, domenica, fino all'ultimo voto”. “Costruiremo un governo saldo, coeso, con un forte mandato popolare che durerà in carica per 5 anni, piaccia o no alla sinistra”, attacca ancora avvisando gli avversari: “Faremo una riforma in senso presidenziale delle istituzioni italiane, e saremo felici se la sinistra vorrà darci una mano. Ma se gli italiani ci daranno i numeri lo faremo comunque”. Quello che non faranno, invece, è ricalcare la linea tenuta dai precedenti governi in tema di pandemia: “Se tornerà non accetteremo più che l'Italia sia l'esperimento dell'applicazione del modello cinese a un paese occidentale. Il modello Speranza ci ha regalato una nazione che aveva le più grandi restrizioni e allo stesso tempo i più alti dati di contagio e di mortalità. Non piegheremo più le nostre libertà fondamentali a questi apprendisti stregoni!”. La Meloni, infine, boccia “l'idea di democrazia” secondo la quale “se vinci le elezioni ma non sei del Pd non hai diritto di governare, se perdi le elezioni e sei del Pd allora devi governare. Ma quell'Italia sta per finire e finisce domenica”. “La loro tesi è: non abbiamo niente da dire, però siccome la Meloni è pericolosa voi turatevi il naso e votate a sinistra. Ma questa nazione si è già turata il naso troppe volte e forse è arrivato il momento di respirare a pieni polmoni, perché l'aria che si respira qua intorno è aria di libertà”.
Per la von der Leyen “se l'Italia farà come Orban abbiamo gli strumenti”
“Vedremo il risultato delle elezioni in Italia, ma se le cose andranno in una situazione difficile, come nel caso di Polonia e Ungheria, abbiamo gli strumenti”. In un domanda e risposta alla Princeton University organizzato a margine dell'Assemblea Generale Onu, Ursula von der Leyen non ha potuto non soffermarsi sulle elezioni del 25 settembre. Dopo la Svezia, l'Italia potrebbe diventare il secondo Paese, nel giro di pochi mesi, ad avere al governo partiti di ispirazione sovranista. “Il mio approccio è che noi lavoriamo con qualunque governo democratico sia disposto a lavorare con noi”, ha sottolineato comunque la numero uno dell'esecutivo europeo. Parole che interpretano il “wait and see” con cui a Palazzo Berlaymont si guarda ad un possibile governo guidato da Giorgia Meloni. A Bruxelles, secondo la prassi, si dà un peso relativo a quanto viene detto in campagna elettorale nei singoli Paesi membri. Contano gli atti e i fatti. Conta l'atteggiamento collaborativo con cui i leader si siedono al Consiglio Ue.
“È interessante vedere la dinamica dei lavori del Consiglio Europeo, non c’è solo un Paese che arriva e dice voglio, voglio, voglio. All'improvviso sei nel Consiglio e realizzi che il tuo futuro, e il tuo benessere, dipendono anche dagli altri 26 Stati membri. So che a volte siamo lenti e che parliamo molto, ma anche questo è il bello della democrazia. Dunque, vedremo come vanno queste elezioni: anche le persone, a cui i governi devono rispondere, giocano un ruolo importante. La democrazia ha bisogno di tutti voi, è un costante lavoro in corso, non finisce mai. Non è mai al sicuro”, ha spiegato la presidente della Commissione alla platea americana che la incalzava sul sistema di garanzie dell'Ue. Un sistema che von der Leyen ha sottolineato facendo riferimento a due Paesi come Polonia e Ungheria, entrambi nel mirino sulla questione dello Stato di diritto. E gli strumenti “legali” citati dalla presidente sono quelli, ad esempio, del meccanismo di condizionalità ex articolo 7 che di fatto blocca il sì al Pnrr dell'Ungheria finché non saranno rispettati i parametri richiesti in fatto di indipendenza della giustizia e anticorruzione. “La Commissione è il guardiano dei Trattati. Li deve proteggere e difendere e ha gli strumenti legali per farlo”. E da qui ai prossimi giorni difficilmente tornerà a esporsi. Wait and see, quindi. Con un assioma che a Bruxelles non fanno che ripetere sin dall'inizio della guerra in Ucraina: mai come ora, serve l’unità dell'Europa.
I partiti scelgono Roma per la chiusura della campagna elettorale
Ultimi giorni di campagna elettorale, ultime ore a disposizione dei partiti per marcare il territorio e tentare la volata; del resto, è proprio nei giorni che precedono il voto che si spostano o riposizionano gli indecisi. Da Matteo Salvini a Giorgia Meloni, da Enrico Letta a Giuseppe Conte, Carlo Calenda e Matteo Renzi, tutti i big stanno battendo palmo a palmo la penisola. Ma per le tradizionali chiusure i leader preferiscono la Capitale. Ieri è toccato al centrodestra a piazza del Popolo e oggi alle 18.00 sarà la volta del centrosinistra sempre nella stessa piazza. Ieri hanno chiuso anche l'Alleanza Verdi Sinistra ai Fori Imperiali e Italexit in Piazza Campo de Fiori. Roma è la sede prescelta anche dal Movimento 5 Stelle, che però chiuderà la campagna elettorale in una location meno capiente rispetto Piazza del Popolo: Giuseppe Conte salirà sul palco allestito in piazza santi Apostoli, luogo storico della sinistra ai tempi delle vittorie di Romano Prodi, che lì insediò il suo quartier generale; l'appuntamento è alle 18.00. La Capitale è stata scelta anche dal Terzo polo per il comizio finale: Carlo Calenda e Matteo Renzi a partire dalle 18.00 saranno al Gianicolo.
Chiude la campagna senza confronti. Da Vespa la tribuna solitaria dei leader
Tutti nello stesso salotto televisivo, quello di Bruno Vespa, ma non in contemporanea. L'ultima tribuna politica prima delle elezioni fa venire i brividi agli appassionati delle sfide dialettiche fra candidati, ma è in linea con questa campagna elettorale in cui i leader non si sono quasi mai scontrati in veri e propri faccia a faccia. Poche le eccezioni: il giro di tavolo al Forum Ambrosetti, dove hanno risposto a un paio di domande ciascuno del direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, lo stesso moderatore del duello fra Enrico Letta e Giorgia Meloni sul sito del quotidiano. L'immagine plastica della polarizzazione della sfida inseguita da FdI e Pd, irritante non poco per i rivali, a partire da Carlo Calenda, che tentò di inserirsi nel confronto rispondendo in differita agli stessi quesiti. A pochi giorni dal voto, i sette leader si sono accomodati uno dopo l'altro sulla poltrona di Porta a Porta, in una serie di interviste mandate poi in onda in ordine estratto a sorte. Niente scintille, né colpi di scena.
A parte il ragionamento di Silvio Berlusconi sui motivi che hanno spinto Vladimir Putin alla guerra in Ucraina. Nei venti minuti a testa i leader hanno riepilogato programmi, prese di posizione e critiche reciproche già declinate negli ultimi due mesi fra piazze, media e ogni tipo di social network. Giuseppe Conte ha difeso il reddito di cittadinanza, poi accusato da Luigi Di Maio di tale incoerenza da essere “in grado di metterlo in discussione a seconda se gli conviene per i sondaggi”. Prima del suo gong finale, Giorgia Meloni ha chiarito di non pensare a una rinegoziazione del Pnrr ma a un “tagliando, alla luce dell'aumento del costo delle materie prime”. “Beh, vuol dire che ha cambiato idea, ne sono contento”, ha osservato poco dopo Enrico Letta, ricordando che una decina di anni fa la leader di FdI gli tolse il record di ministro più giovane. Ora Meloni punta a Palazzo Chigi, dove innanzitutto varerebbe il disaccoppiamento fra il prezzo del gas e quello delle altre fonti energetiche. Ma senza lo scostamento di bilancio, che sarebbe invece la prima mossa di Calenda, “ma senza poi invenzioni su tagli di tasse o pensioni”. Un distinguo implicitamente diretto a Matteo Salvini, che non ha nascosto la sua ambizione: “Un governo Meloni? Io penso a un governo Salvini”.
L’ambasciata Russa pubblica le foto di Putin con i leader dei partiti italiani
A tre giorni dalle elezioni, l'ambasciata russa in Italia lancia una nuova provocazione: un post sui social con una serie di scatti che ritraggono il presidente Vladimir Putin insieme a quasi tutti i leader politici italiani impegnati in queste ore a chiudere la campagna elettorale. “Dalla storia recente delle relazioni russo-italiane. C’è molto da ricordare”, recita la didascalia che accompagna la fotogallery: la prima è la famosa immagine di Putin insieme a Matteo Salvini, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio a Villa Madama. Poi una in cui stringe la mano a Enrico Letta, un'altra a Matteo Renzi, quella con Silvio Berlusconi seduti vicini occhi negli occhi. E ancora, altre strette di mano con Massimo D'Alema e Paolo Gentiloni, ma anche una foto del leader del Cremlino con il presidente Sergio Mattarella e una d'annata con l'ex capo dello Stato Giorgio Napolitano. Fino a quella del premier uscente Mario Draghi con il ministro degli Esteri Serghei Lavrov a Palazzo Chigi. Tutte foto scattate prima che Putin decidesse di invadere l’Ucraina. Alcuni tra gli interessati hanno replicato, più con stupore che con imbarazzo.
“Non so cosa significhino, io posso rispondere per me: io ho incontrato Putin come rappresentante del popolo italiano”, ha spiegato il leader del M5S. Matteo Renzi invece non si fa sfuggire l'occasione per attaccare direttamente l'ex premier: “Noi siamo stati e siamo favorevoli alle sanzioni e all'invio delle armi all'Ucraina, ma da sempre diciamo che debba essere lasciato aperto un canale di dialogo. Non sono come quelli che cambiano idea una volta al giorno, penso a Giuseppe Conte”, ha risposto il leader di IV derubricando la portata del post dell'ambasciata: “Credo che il problema non sia il post o il tweet, ma ciò che ha detto Putin ieri. Il problema è come risponderà la comunità internazionale all'escalation”. Pur non comparendo nelle foto con Putin, Carlo Calenda ne approfitta per dare contro al centrodestra “Abbiamo un'altra certezza: il governo Meloni-Berlusconi-Salvini non è una garanzia per le alleanze internazionali. L'unica garanzia di fedeltà ai nostri alleati e ai valori dell'Occidente è andare avanti con Mario Draghi”.