Il presidente del Consiglio non si fa impaurire dal momento di evidente difficoltà. Anzi, il segretario del Partito democratico rilancia e assicura di essere nelle condizioni di declinare la sua agenda riformista. Il programma del “Passo dopo passo” è ancora pienamente valido e la legislatura in corso si concluderà con la revisione della Costituzione e la modifica della normativa elettorale.

Nel bel mezzo della sua missione negli Stati Uniti e alle Nazioni Unite, con il Pd sull'orlo della rottura ed i sindacati in ebollizione per la riforma del lavoro, il presidente del consiglio mostra i muscoli. E alla minoranza che invoca un'intesa per evitare conseguenze interne imprevedibili, fa capire che lui non torna indietro. Il “Jobs act”, piaccia o meno, è per Renzi un investimento in un nuovo modello che porterà più occupazione e più garanzie. Un impianto normativo che sarà capace di eliminare le differenze oggi presenti: l'ex sindaco di Firenze vorrebbe infatti aumentare i diritti per chi ne è sprovvisto, spesso a causa della giovane età. E al tempo stesso, come insiste in tutti gli incontri con i partner economici americani, renderà più semplice investire in Italia. Una linea dura che Renzi intende confermare anche al suo ritorno in Italia. “Il mio impegno è chiaro, realizzare le riforme indipendentemente dalle reazioni”, assicura al Wall Street Journal dicendo con chiarezza che la protesta dei sindacati non avrà effetto su di lui. “La riforma del mercato del lavoro in Italia è una priorità - ribadisce Renzi - e se i sindacati sono contro, per me questo non è un problema”. Avanti tutta, dunque, sul Jobs act, la prova del nove del premier sulla tenuta del governo e del Pd. Ai media Usa che gli chiedono se la riforma sarà frutto di una mediazione viste le tante proteste, il rottamatore risponde escludendo ogni trattativa. A costo di surriscaldare animi già accesi. “Il compromesso - spiega - non è una brutta parola ma questo non è il momento del compromesso ma del coraggio”. La segreteria del Pd – sottotraccia – starebbe mostrando i muscoli in maniera ancora più evidente. Il messaggio fatto recapitare ai dissidenti sarebbe questo: la delega sul lavoro non deve essere toccata o Palazzo Chigi sarà costretta ad intervenire con un decreto-legge. Una decisione senza precedenti che sarebbe in grado di segnare una svolta nella storia delle relazioni industriali.

Al momento rimane quindi fondamentale l'esito della direzione nazionale del Partito democratico. I parlamentari indisponibili a votare l'attuale versione della legge delega sul lavoro sono, al momento, poco più di un centinaio. Numeri che – a prescindere dalla versione dei renziani – obbligheranno il governo a trattare con tutte le anime della maggioranza. Il confronto interno non si esaurirà però al termine della direzione. “La data più importante è il 2 ottobre”, sottolinea Pippo Civati: se i numeri della direzione sono a favore di Renzi, alla prova dell'Aula del Senato l'atteggiamento dei singoli senatori non è scontato. Su un punto tutti concordano: fino a che Matteo Renzi sabato non rimetterà piede in Italia, i tentativi di trovare una mediazione sul lavoro sono poco più di un pour parler. I “giovani turchi” del ministro della Giustizia Orlando si propongono come mediatori. E Area riformista fa sapere che considera accettabile allungare il periodo di prova nel contratto a tutele crescenti, sul modello indicato da Tito Boeri e Pietro Garibaldi. L'ipotesi è far scattare il reintegro previsto dall'articolo 18, come modificato dalla legge Fornero, dopo 5 o 7 anni. Ma non soddisfa tutti. Alfredo D'Attorre e Stefano Fassina, che come Francesco Boccia insistono sulla necessità di affrontare in direzione anche il tema della legge di stabilità, chiedono al premier un incontro prima della direzione, per mettere a punto insieme una linea unitaria. E Pier Luigi Bersani puntualizza che se non si troverà una sintesi, “non solo possibile, ma abbastanza agevole, la responsabilità sarà tutta in capo a Renzi”. La maggioranza potrebbe essere quindi esposta a nuove fibrillazioni nelle prossime settimane, la nuova legge di stabilità rappresenterà un banco di prova fondamentale per il mandato di Matteo Renzi e per il ruolo dell'Italia a livello europeo.



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