È già tensione su legge elettorale e premio di maggioranza

Sul premierato l’esigenza della maggioranza è quella di fare presto cercando il maggior consenso possibile e senza snaturare quella che è già una soluzione di “compromesso”. Da giorni il Governo difende la bontà di una riforma che renderà il premier “molto più forte” e assicura, per voce del sottosegretario alla presidenza Giovanbattista Fazzolari, che con la legge elettorale sarà garantita “una soglia adeguata” per assegnare il premio di maggioranza, “sicuramente superiore al 30%”. Cifra “risibile”, va subito all'attacco il Pd, pronto a dare battaglia con le altre opposizioni. Ad ogni modo la tensione è altissima nonostante il testo non sia ancora stato inviato al Quirinale, che deve autorizzare la trasmissione alle Camere. La speranza della maggioranza è che la riforma costituzionale arrivi la prossima settimana, quando, compatibilmente con la conclusione del voto sull'autonomia differenziata, la commissione Affari Costituzionali, guidata da Fdi con Alberto Balboni, potrebbe già avviare l'esame, che potrebbe portare, è l'auspicio della Ministra per le Riforme Elisabetta Casellati, a un primo via libera già “in due, tre mesi”: certo, “è il Parlamento che detta i tempi, non strozzerò mai il dibattito”, garantisce. 

Bene il dialogo quindi, e pure l'apertura alle opposizioni se ci saranno proposte “condivisibili”, assicurano dalla maggioranza, ricordando che anche con l'autonomia la metà circa delle modifiche è frutto di proposte delle opposizioni. La battaglia tra maggioranza e opposizione toccherà anche la legge elettorale su cui Casellati ha più volte dichiarato di stare già lavorando. Quello che è certo è che lo scontro è già accesissimo e la soglia per il premio di maggioranza è al centro del dibattito: il bonus del 55% partendo da una soglia “sopra il 30%”, si scalda il dem Dario Parrini, è una “rassicurazione di nessun valore”, intanto perché Fazzolari fa finta che “non esistano sentenze della Corte Costituzionale” che vogliono l'asticella oltre il 40% per la “sovrarappresentanza di una maggioranza nella traduzione dei voti in seggi”, e poi perché stare sotto il 50% per l'assegnazione del premio di maggioranza renderebbe l'Italia “un'anomalia assoluta a livello europeo”, visto che nei “quattordici paesi” la soglia arriva grazie ad un “secondo turno e ballottaggio”. 

Le opposizioni chiedono a gran voce un nuovo premier time

A distanza di otto mesi dal premier time andato dello scorso 15 marzo alla Camera è ora che Giorgia Meloni torni in Parlamento. Lo chiede a gran voce l'opposizione tornata alla carica in occasione della conferenza dei capigruppo che si è tenuta a Montecitorio per discutere dell'iter parlamentare del ddl costituzionale sul premierato. Il dossier sulle riforme, d'altronde, è solo uno dei tanti nel mirino: la lista infatti è lunga e comprende anche la legge di bilancio, la crisi in Medio Oriente, la gestione dei flussi migratori col fresco protocollo d'intesa siglato sull'asse Roma-Tirana inviato alla Commissione Ue. Ancora in stand-by, poi, il discorso legato alla ratifica del Mes, i nodi legati al Pnrr, per non parlare del caso della telefonata di Meloni con i due comici russi Vovan e Lexus. 

Nel corso della capigruppo PdM5S e Avs hanno ribadito al Ministro per i rapporti col Parlamento Luca Ciriani la richiesta di avere Meloni al question time perché “vogliamo risposte su temi su cui continuiamo a non avere riscontri da parte del Governo”. Davanti al pressing delle opposizioni, l'esecutivo starebbe valutando la possibilità di un nuovo premier time da fissare prossimamente: “Il Ministro per i rapporti con il Parlamento si è impegnato a dare una data nella quale la presidente verrà in Aula”, ha comunicato infatti il vicepresidente di Montecitorio Giorgio Mulè rispondendo al termine della seduta alle richieste avanzate dall'opposizione. Per Avs il tempo è scaduto mentre il M5S chiede “che quest'Aula mantenga la sua dignità e, se il Governo continuerà a non mostrare alcun rispetto, dalla prossima settimana il nostro atteggiamento sarà molto più scomposto”. 

Uno dei temi caldi su cui da giorni le opposizioni martellano il Governo è certamente quello legato all'accordo con l’Albania. L’intesa è difesa dai vicepremier Matteo Salvini e Antonio Tajani e dal sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, che apre al dibattito in Aula: “Ben venga, non c'è nessuna resistenza, ma il protocollo non necessita di ratifica parlamentare perché non è un nuovo trattato internazionale fra Italia e Albania. Ci sarà un atto normativo e quindi passerà comunque dal Parlamento, ma non c'è necessità di ratifica”. 

Il caso Rama scuote il Pd e i Socialisti europei

L'intesa tra l’Italia e l’Albania è un caso politico che va ben oltre i confini italiani. E, soprattutto, si è trasformata in un dossier molto delicato all'interno del Partito Socialista europeo (Pes) alla vigilia del Congresso che lo vedrà riunito a Malaga. L'accordo siglato da Edi Rama e Giorgia Meloni ad una buona parte dei socialdemocratici non è proprio piaciuto. E qualcuno è andato oltre, evocando di fatto una sospensione del Pssh, il partito del leader albanese, che nel Pes siede come osservatore. Rama non sarà in Spagna, in quanto impegnato alla conferenza di Parigi su Gaza, ma ha affidato ai social la sua replica ai malumori dei suoi compagni di partito: l'intesa con l'Italia, ha sottolineato, non è né di sinistra né di destra, è semplicemente “giusta”. 

Il Pd, in questo quadro, si pone inevitabilmente come uno degli attori principali: viene spiegato, non vuole fare da “buttafuori” del Pes ma porrà la questione a Malaga. Con una convinzione: il caso Edi Rama mostra una volta in più come sulla migrazione la linea dei Socialisti Ue non sia sempre omogenea. In Spagna è previsto l'arrivo di una delegazione guidata dalla segretaria Elly Schlein e composta da Peppe ProvenzanoLia QuartapelleAndrea Orlando ed Enzo Amendola. Con i Dem, in Andalusia ci saranno i principali leader socialisti d'Europa, incluso il cancelliere Olaf Scholz, che negli ultimi giorni ha mostrato un crescente interesse per la soluzione individuata dalla Meloni. Ma, nel Pes, sulla questione c’è grande dibattito anche perché in molti temono che possa diventare una spina nel fianco per la campagna dei Socialisti per le Europee. 

Fitto ribatte punto su punto alla Corte dei Conti sullo stato del Pnrr

La situazione è complicata, ma non insuperabile. La relazione al Parlamento della Corte dei conti sullo stato di attuazione del Pnrr nel primo semestre 2023 fa ancora discutere, stavolta per la presa di posizione del Ministro Raffaele Fitto che torna sull'argomento partendo da un concetto base: “La Corte dei conti ha compiuto l’istruttoria interpellando alcuni ministeri e sinceramente non comprendo le ragioni del mancato confronto con la struttura di missione Pnrr della Presidenza del Consiglio dei ministri che ha il coordinamento generale e strategico della realizzazione del Piano”. Secondo il ministro di FdI, dal confronto “sarebbe emersa una rappresentazione più puntuale dello stato di attuazione evitando alcune inesattezze, anche concettuali”. L'elenco parte da pagina 6: “Si indicano i ritardi sia nel procedimento di revisione sia nel raggiungimento degli obiettivi della quinta rata. Al riguardo, innanzitutto va ricordato che l’Italia è l’unico Stato membro che ha presentato la quarta richiesta di pagamento”. E ancora, pagina 21: “Viene riportato che non è stata ancora approvata la modifica della quarta rata. Niente di più sbagliato, il 28 luglio scorso la Commissione Ue e il 19 settembre 2023 il Consiglio Ue hanno approvato in via definitiva la proposta di modifica della quarta rata”. 

Fitto prosegue sottolineando che “il nostro Paese ha raggiunto tutti i 28 obiettivi previsti, diversamente non avrebbe potuto presentare la richiesta di pagamento della quarta rata che è stata invece presentata il 22 settembre” e “in questi giorni la Commissione sta completando la fase di verifica finalizzata all’erogazione di 16,5 miliardi di euro, prevista entro il 31 dicembre 2023”. Anche sulla spesa dei fondi Fitto mette in fila le risposte, perché i dati citati nella Relazione della Corte dei conti “si riferiscono alle somme destinate alle Amministrazioni interessate titolari di 31 misure complessive, di cui 27 del Pnrr su un totale di 191 e 4 del Pnc su un totale di 24 programmi. L’analisi, quindi, si concentra solo su 31,1 miliardi e non sui 220 miliardi complessivi del Pnrr e Pnc. Come è possibile valutare lo stato di attuazione dell’intero Piano con dati assolutamente parziali e poco rappresentativi e peraltro relativi al 30 giugno 2023?”, lamenta. Fitto comunque auspica che “a partire dalla prossima relazione vi sia un maggiore raccordo tra la Corte dei conti e la struttura di missione Pnrr”. 

Nella partita, però, si inseriscono le opposizioni. Il Pd chiede “chiarezza e trasparenza”, ma soprattutto che il Ministro “venga in Parlamento a dire qual è lo stato dell’arte su tutti i dati e le informazioni di cui siamo all’oscuro e che attengono al futuro dell’Italia”. Duro anche il commento del M5S che con Chiara Appendino attacca: “Nella sfida del Pnrr l'unico grande assente è il Governo Meloni. Hanno accumulato errori, ritardi e tagli su tagli perché è un fastidio per loro, una frittata fatta”. 

Cgil e Uil annunciano lo sciopero contro manovra e salari bassi

Alzare i salari, estendere i diritti, cambiare la manovra e le politiche economiche e sociali: sono le ragioni della manifestazione collegata allo sciopero indetto da Cgil e Uil a Roma e nel Lazio per il prossimo 17 novembre che si svolgerà a piazza del Popolo, nel centro storico della Capitale. L'iniziativa è stata presentata al Centro Congressi Frentani alla presenza dei delegati di Cgil e Uil e del segretario generale della Cgil Maurizio Landini e del segretario organizzativo della Uil Emanuele Ronzoni. “La riforma del fisco insiste a tassare il lavoro dipendente e i pensionati” e “alle organizzazioni sindacali, che rappresentano milioni di persone, viene negato il diritto di negoziare le riforme che sono necessarie in questo Paese. Viene quindi messo in discussione il diritto degli iscritti ai sindacati di essere rappresentati”, ha spiegato Landini. 

Scenderanno in piazza con le organizzazioni sindacali anche i giovani, “per cui oggi trovare un'occupazione sta diventando un privilegio. Dobbiamo recuperare la capacità di ascoltarli e dargli uno spazio per fare le proprie battaglie perché sono coloro che non vivono in una condizione di precarietà che devono essere pronti a scioperare affinchè chi i diritti non li ha li raggiunga”. La manifestazione “servirà per chiedere al Governo di cambiare la finanziaria e alla Regione Lazio di aumentare i salari e superare la precarietà”, ha detto il segretario della Cgil di Roma e del Lazio, Natale Di Cola, per cui quella del 17 novembre “sarà una grande risposta contro le scelte sbagliate del Governo e della Regione”. Intanto, lo sciopero del prossimo 17 novembre a Roma e nel Lazio anticiperà quelli che si realizzeranno nelle altre regioni d'Italia, ha spiegato il segretario generale della Uil Lazio, Alberto Civica. “Il 20 novembre toccherà alla Sicilia, il 24 novembre al nord, il 27 novembre alla Sardegna e il prossimo primo dicembre al sud”.



Seguici sui Social


2

Nomos Centro Studi Parlamentari è una delle principali realtà italiane nel settore delle Relazioni IstituzionaliPublic Affairs, Lobbying e Monitoraggio Legislativo e Parlamentare 

Vuoi ricevere tutti i nostri aggiornamenti in tempo reale? Seguici sui nostri canali social