Faccia a faccia tra Fedriga e Meloni sul nodo del terzo mandato

Quello che è certo è che tra Massimiliano Fedriga e Giorgia Meloni c’è la volontà di ricomporre la frattura. Il governatore friulano, sceso a Roma per vedere la premier, ne è sicuro e torna quindi a casa per superare la crisi nella sua Giunta, congelata da domenica quando gli assessori della sua lista, della Lega e di FI hanno ritirato le deleghe. E con tono assertivo annuncia: “Nelle prossime ore convocherò una riunione in maggioranza per addivenire a una soluzione che possa andare in questa direzione”: tradotto, l'incontro a Roma è servito. La soluzione potrebbe arrivare oggi: in mattinata è fissato un vertice di maggioranza a Trieste, presenti i segretari dei partiti. Si punta ad arrivare a un documento programmatico che garantisca la tenuta della squadra fino a fine legislatura. Nessun passo avanti, invece, sul terzo mandato dei governatori. “Non ne abbiamo parlato”, dice Fedriga uscendo da Palazzo Chigi. 

Aggiunge solo che, da presidente della Conferenza delle Regioni, ha portato a Meloni il documento sottoscritto da tutti i governatori per chiedere un approfondimento ad hoc. Ma sulla questione al momento la Lega non è intenzionata a cedere. “L'ho detto più volte: io sono sempre favorevole quando scelgono i cittadini”. Quindi ribadisce: “La limitazione dei mandati è data dalla volontà popolare, per quanto mi riguarda”. Del resto, è ancora fresca la ferita, sancita dal ricorso alla Corte costituzionale presentato l'ultimo giorno utile, con il voto contrario della Lega, sul terzo mandato che nei giorni scorsi ha contrapposto il Cdm alla legge dell'altro amministratore leghista, il trentino Maurizio Fugatti, che porta a tre i mandati consecutivi. Su questo, nel centrodestra le posizioni sembrano cristallizzate. Ad esempio, per Matteo Salvini “Se un cittadino ha un bravo sindaco o governatore, è giusto che possa continuare a sceglierlo e votarlo senza limiti”. E, incalzato da Bruno Vespa, aggiunge: “Spero che tutta la maggioranza arrivi a questa conclusione, che è di democrazia”. 

Non va allo scontro nemmeno Fedriga che però tiene il punto: “Penso che le Regioni a statuto speciale abbiano competenza esclusiva”. Attende il responso della Consulta, com'è inevitabile e come probabilmente gli è stato ribadito nel confronto a Palazzo Chigi. Ma continua a distinguere tra Regioni a statuto speciale, come la sua, e quelle a statuto ordinario, riservando solo a queste ultime “l'evidente” necessità di una legge nazionale per dirimere la querelle. Agli antipodi il Governo, convinto che una norma nazionale, valida per tutte le regioni indistintamente, sia “la strada maestra”. Lo ribadisce il ministro Tommaso Foti, fedelissimo della premier e successore di Raffaele Fitto nella gestione del Pnrr. Così come resta la distanza da Forza Italia. 

9 paesi, tra cui l’Italia, chiedono di aprire il dibattito su Cedu e migranti

In materia d’immigrazione, “riteniamo che sia necessario esaminare come la Corte europea dei diritti dell'uomo abbia sviluppato la sua interpretazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. È importante valutare se, in alcuni casi, la Corte abbia esteso eccessivamente l'ambito di applicazione della Convenzione rispetto alle intenzioni originarie della stessa, alterando così l'equilibrio tra gli interessi che dovrebbero essere tutelati”. È uno dei passaggi cruciali di una lettera di cui si sono fatte promotrici Giorgia Meloni e Mette Frederiksen, primo ministro di Danimarca, firmata dai leader di Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, di famiglie politiche e latitudini diversi ma allineati sulla necessità di aprire una riflessione sull'interpretazione dei giudici di Strasburgo per “ristabilire il giusto equilibrio”. L'obiettivo, ha spiegato la Meloni dopo l'incontro con Frederiksen, è “aprire un dibattito politico su alcune convenzioni europee e sulle capacità di quelle convenzioni, a distanza di qualche decennio da quando sono state scritte, di sapere affrontare le grandi questioni del nostro tempo, a partire proprio dal tema del fenomeno migratorio”. 

Bisogna “avviare una discussione su come le convenzioni internazionali si adattino alle sfide che affrontiamo oggi. Ciò che una volta era giusto potrebbe non essere la risposta di domani”, la tesi dei capi di Stato di questi nove Paesi, secondo cui “l'evoluzione nell'interpretazione della Corte” ha, “in alcuni casi, limitato la nostra capacità di prendere decisioni politiche nelle nostre democrazie. E di conseguenza, ha influenzato il modo in cui noi, in quanto leader, possiamo proteggere le nostre società democratiche e le nostre popolazioni dalle sfide che ci troviamo ad affrontare nel mondo di oggi”. Nella lettera si cita l'esempio di “casi riguardanti l'espulsione di cittadini stranieri criminali in cui l'interpretazione della Convenzione ha portato alla protezione delle persone sbagliate e ha posto troppe limitazioni alla capacità degli Stati di decidere chi espellere dai loro territori”. I nove leader chiedono “più libertà a livello nazionale per decidere quando espellere cittadini stranieri criminali”, o nel “decidere come le nostre autorità possano tenere traccia, ad esempio, di stranieri criminali che non possono essere espulsi dai nostri territori”. 

Tensione tra Lega e Quirinale sulle norme antimafia per il Ponte sullo Stretto

Da una parte il Quirinale e i timori giuridici sul rischio di indebolire i controlli antimafia, dall'altra Matteo Salvini che difende la sua ipotesi di norma per il Ponte sullo Stretto infilata e poi tolta dal decreto Infrastrutture, con la Lega pronta a riproporla con un emendamento. Se non è uno scontro aperto, è certo alto il livello di tensione fra il Ministero guidato dal vicepremier e l'asse che si è creato fra il Colle e Palazzo Chigi. Salvini era convinto di aver individuato la soluzione giusta e nella Lega che alla fine entrerà nella legge in fase di conversione: “Chiederemo il massimo del rigore, il massimo della trasparenza, più poteri al ministero dell'Interno e alle Prefetture per verificare che non ci siano infiltrazioni. Dal mio punto di vista era importante, qualcuno l'ha pensata in modo diverso, vorrà dire che sarà il Parlamento a mettere il massimo delle garanzie”. È facile immaginare che quel “qualcuno” sia riferito a chi ha stoppato una parte chiave del decreto, rivendicata lunedì nella conferenza che lo stesso Ministro delle Infrastrutture aveva tenuto con quello dell'Interno Matteo Piantedosi. “Trasferiamo la procedura di realizzazione del Ponte sullo Stretto alla struttura per la prevenzione antimafia presso il Viminale, centralizzando gli esiti dei controlli e della gestione degli appalti alle prefetture, alle istituzioni”, aveva spigato Piantedosi. Poi, però, quella parte è saltata.

La decisione è arrivata dopo le consuete interlocuzioni fra Palazzo Chigi e il Quirinale. Questa volta il Colle ha emesso una nota per chiarire perché per il Ponte sullo Stretto non sia possibile “una procedura speciale” come quelle usate in casi di emergenza (terremoti) o eventi speciali (Olimpiadi), “che non risulta affatto più severa delle norme ordinarie”. Anche perché si prevedeva di “derogare ad alcune norme previste dal Codice antimafia, deroghe non consentite dalle regole ordinarie per le opere strategiche d’interesse nazionale”. Inoltre l'Ufficio stampa del Colle ha precisato che “la norma sui controlli antimafia non era contenuta nel testo preventivamente inviato al Quirinale, ma è apparsa poche ore prima della riunione del Cdm”. Nessuna reazione, per il momento, da Palazzo Chigi; tra i meloniani ci si limita a osservare che da tempo quello del Ponte è un dossier in cui il loro partito tende a non entrare e che sulle questioni che riguardano la mafia Giorgia Meloni “è una che non fa compromessi”. 

I leader dei partiti spingono la volata per le amministrative

La volata è scattata in Liguria, con una sfida a distanza fra la premier Giorgia Meloni e la segretaria Pd Elly Schlein. A Genova si gioca una delle partite più significative delle amministrative di domenica e lunedì, quando andranno al voto 117 Comuni e due milioni di elettori. Insieme a RavennaTaranto e Matera, quello ligure è uno dei capoluoghi in ballo: l'alleanza progressista cerca il colpo in un territorio che, sia in Comune sia in Regione, negli ultimi anni è stato guidato dal centrodestra (l'attuale governatore ligure, Marco Bucci, è sindaco uscente di Genova). È anche per questo che nelle battute finali della campagna elettorale molti big si sono fatti vedere in città. Nello stesso giorno, sono arrivati Schlein a sostegno della candidata di centrosinistra Silvia Salis e tutti i leader della maggioranza di governo per spingere il candidato di centrodestra Pietro Piciocchi. La Meloni e il vicepremier Antonio Tajani si sono collegati in video, mentre hanno fatto tappa in piazza l'altro vicepremier Matteo Salvini e il presidente di Noi Moderati Maurizio Lupi

L'esito del confronto elettorale non sembra già scritto. “Ma la sinistra perderà anche questa volta” è stata la previsione di Tajani”. Salvini, addirittura, a Genova si aspetta di vincere al primo turno: “C'è l'orgoglio di aver accompagnato Genova in questi anni a un nuovo Rinascimento”. Ma Schlein confida nel ribaltone. Il presidente del M5S, Giuseppe Conte, è stato in Calabria e Basilicata, con chiusura di giornata a Matera, dove l'area progressista si presenta in ordine sparso: il M5S punta su Domenico Bennardi, sindaco uscente, decaduto nell'ottobre del 2024 per le dimissioni di 17 consiglieri comunali su 32. Prima, Conte ha tenuto un comizio a Lamezia Terme, dove il campo largo è unito e sostiene Doris Lo Moro. A Ravenna è arrivato il segretario di Sinistra italiana e deputato di Avs Nicola Fratoianni, a sostegno del candidato di centrosinistra Alessandro Barattoni. (Leggi lo speciale amministrative di Nomos)

Tensione sul Dl sicurezza dopo l’ok in Commissione

Via libera ad alta tensione al decreto sicurezza. Le Commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera hanno approvato, a maggioranza, il mandato ai relatori tra le urla delle opposizioni: “Vergognatevi!”. Lunedì il testo approderà in aula ed è scontata la fiducia. Il provvedimento, che contiene oltre venti tra nuovi reati e aggravanti, dopo l'ok dell'assemblea passerà al Senato per il via libera definitivo. Le opposizioni sono andate all'attacco per la decisione di Governo e maggioranza di chiudere il provvedimento ieri con una doppia tagliola: non sono stati esaminati neanche la metà degli emendamenti di minoranza (la maggioranza aveva ritirato nei giorni scorsi i propri, rendendo di fatto il testo blindato) e interrotte in corsa le dichiarazioni di voto.

I capigruppo dei gruppi di minoranza, Chiara Braga del Pd, Riccardo Ricciardi del M5S, Luana Zanella di Avs, Matteo Richetti di Azione, Maria Elena Boschi di Iv e Riccardo Magi di +Europa, hanno scritto una lettera al presidente della Camera Lorenzo Fontana per esprimere la “profonda preoccupazione che si consolidi una prassi in cui la maggioranza ricorre a strumenti procedurali volti a impedire il confronto parlamentare, alterando l'equilibrio dei poteri e comprimendo il ruolo delle istituzioni, in contrasto con i principi fondamentali della democrazia parlamentare sanciti dalla Costituzione e tutelati dal regolamento della Camera” e dove si chiede a Fontana di “assumere ogni iniziativa utile a tutelare il corretto svolgimento dei lavori parlamentari e a riaffermare il rispetto dei diritti delle minoranze, anche con riferimento ai successivi passaggi dell'iter di conversione del decreto”. Il provvedimento, si legge nella lettera, “per la delicatezza dei temi trattati e per l'impatto diretto su diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione, avrebbe meritato un esame pieno, approfondito e rispettoso delle prerogative di tutti i gruppi parlamentari”.

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