Tregua di Trump con Canada e Messico, scontro frontale con la Cina sui dazi
L’amministrazione Trump ha riaperto il fronte delle guerre commerciali imponendo pesanti dazi sulle importazioni da Canada, Messico e Cina, suscitando immediate reazioni da parte dei governi coinvolti. L’offensiva tariffaria si inserisce in una strategia protezionistica volta a ridurre il deficit commerciale statunitense e a esercitare pressioni politiche su partner economici strategici. Il 1° febbraio Trump ha firmato un ordine esecutivo che prevedeva tariffe al 25% su beni importati da Canada e Messico, ma a poche ore dall’entrata in vigore le ha posticipate di 30 giorni, dopo aver ottenuto concessioni in materia di sicurezza delle frontiere e lotta al narcotraffico. Il Canada si è impegnato a investire 1,3 miliardi di dollari canadesi per rafforzare i controlli alla frontiera, con il dispiegamento di quasi 10.000 agenti e l’uso di nuove tecnologie di sorveglianza.Trudeau ha sottolineato che la misura risponde direttamente alle richieste statunitensi di un’azione più incisiva contro il traffico di fentanyl, l’oppioide sintetico alla base della crisi sanitaria negli USA.
Anche il Messico ha risposto alle pressioni americane: la presidente Claudia Sheinbaum ha ordinato lo schieramento di 10.000 agenti della Guardia nazionale lungo il confine con gli Stati Uniti, intensificando le operazioni contro il narcotraffico e i flussi migratori irregolari. Tuttavia, i dati delle autorità federali USA evidenziano come la stragrande maggioranza del fentanyl sequestrato – oltre il 96% – provenga dal confine messicano, mentre solo lo 0,2% transiti attraverso il Canada, smentendo le dichiarazioni di Trump.
Il leader americano ha giustificato la sua mossa affermando che il suo obiettivo è la sicurezza nazionale, ma i dazi avrebbero rischiato di colpire pesantemente settori strategici come l’industria automobilistica, i prodotti freschi e i carburanti, causando un’impennata dei costi per i consumatori statunitensi. La sospensione delle tariffe ha quindi evitato, almeno temporaneamente, un’escalation con due dei principali partner commerciali degli USA, il cui interscambio nel 2023 ha raggiunto 1.800 miliardi di dollari, nettamente superiore ai 643 miliardi di dollari di commercio tra USA e Cina.
Se con Canada e Messico Trump ha trovato una momentanea tregua, con la Cina la tensione è alle stelle. Nella notte tra il 3 e il 4 febbraio, sono entrati in vigore nuovi dazi del 10% su tutte le importazioni cinesi, aggravando una guerra commerciale già in corso dal primo mandato di Trump.
La reazione di Pechino è stata immediata e dura: dazi del 15% su carbone e gas naturale liquefatto (GNL) provenienti dagli USA, oltre a tariffe del 10% su petrolio, macchinari agricoli e automobili. Inoltre, il governo cinese ha presentato un reclamo all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), accusando gli Stati Uniti di violare le regole del commercio internazionale. Tuttavia, l’azione legale rischia di rimanere inefficace, poiché dal 2019 il WTO non è più in grado di dirimere dispute commerciali a causa del blocco imposto da Trump alla nomina di nuovi giudici.
Ma Pechino non si è fermata qui: ha aperto un’indagine antitrust contro Google, accusandola di pratiche monopolistiche, e ha inserito nella lista delle “entità non affidabili” il gruppo PVH Corp (proprietario di Calvin Klein e Tommy Hilfiger) e la società biotech Illumina. Inoltre, ha imposto nuove restrizioni all’export di terre rare e metalli strategici – come tungsteno, bismuto e molibdeno – materiali essenziali per l’industria tecnologica e la transizione energetica.
Mentre la guerra commerciale tra USA e Cina si intensifica, cresce la preoccupazione in Europa. Trump ha lasciato intendere che Bruxelles potrebbe essere il prossimo bersaglio delle misure protezionistiche statunitensi, con possibili dazi generalizzati al 10%.
Al vertice informale del 3 febbraio, i leader europei hanno discusso le possibili contromosse, con il presidente francese Emmanuel Macron che ha avvertito: “Se i nostri interessi commerciali saranno attaccati, l’Europa dovrà farsi rispettare.” Tuttavia, l’UE rischia di trovarsi divisa di fronte alla strategia americana: Washington potrebbe puntare a trattative bilaterali con singoli paesi, cercando di frammentare la posizione europea.
Nel frattempo, il Regno Unito si trova in una posizione delicata. Se da un lato Londra non vuole inimicarsi Bruxelles, dall’altro spera di ottenere condizioni più favorevoli dagli Stati Uniti, sfruttando la sua uscita dall’UE. Il primo ministro britannico Keir Starmer ha dichiarato che il Regno Unito "non sta scegliendo tra gli Stati Uniti e l’UE", lasciando aperta la porta a possibili accordi separati con Washington.
Stipendi italiani in crescita, ma il recupero è lento
Nel 2024 le retribuzioni orarie dei lavoratori dipendenti in Italia sono cresciute del 3,1% rispetto all’anno precedente, segnando un primo recupero del potere d’acquisto dopo anni di erosione causata dall’inflazione. Secondo i dati Istat, l’aumento è stato più marcato nell’industria (+4,6%) e nei servizi privati (+3,4%), mentre nel settore agricolo si è fermato all’1,3% e nel pubblico impiego gli stipendi sono rimasti invariati.
Per la prima volta dal 2020, le retribuzioni medie sono cresciute più del costo della vita, con un’inflazione annua contenuta all’1%, consentendo ai lavoratori di guadagnare potere d’acquisto. Una situazione opposta rispetto al 2023, quando i salari erano aumentati della stessa percentuale, ma i prezzi erano saliti del 5,7%, aggravando la perdita economica delle famiglie. Tuttavia, il recupero del 2024 non è sufficiente a colmare il divario accumulato: dal 2021 i prezzi sono aumentati del 16,8%, mentre le retribuzioni contrattuali solo dell’8,2%, segnando un ritardo di crescita salariale che pesa sui redditi degli italiani.
Il confronto internazionale conferma le difficoltà del mercato del lavoro italiano. Secondo l’OCSE, l’Italia è tra i paesi in cui la perdita di potere d’acquisto è stata più marcata: nel primo trimestre del 2024, gli stipendi reali erano ancora del 6,9% inferiori rispetto al 2019, mentre in Spagna la contrazione è stata del 2,5%, in Germania del 2% e in Francia il gap è stato colmato. Le cause di questa stagnazione salariale sono molteplici. Oltre alla scarsa crescita economica e alla bassa produttività, pesa il sistema contrattuale italiano. Il 50% dei lavoratori nel 2024 aveva un contratto collettivo scaduto, il che significa che per anni molti stipendi sono rimasti fermi in attesa di rinnovi negoziati tra sindacati e associazioni datoriali. Questo meccanismo, pur essendo la principale modalità di adeguamento salariale in Europa, in Italia è spesso rallentato da negoziazioni difficili e da un minor potere contrattuale dei sindacati rispetto ad altri paesi.
Eni apre a nuovi investitori su Plenitude
Eni è pronta a cedere fino al 15% del capitale di Plenitude, la controllata che opera nelle energie rinnovabili e nella distribuzione di energia a oltre 10 milioni di clienti. Tre fondi di investimento sono in lizza per l’operazione, che potrebbe valere almeno 1,5 miliardi di euro: si tratta degli statunitensi Apollo e Ares Management, specializzati in private equity, e del norvegese HitecVision, già partner di Plenitude nella joint-venture eolica Vårgrønn. Il nuovo socio si affiancherebbe a Eni e al fondo svizzero EIP, che a novembre ha incrementato la propria partecipazione al 10%, portando la valutazione complessiva di Plenitude a 10 miliardi di euro. Nel 2024 la società ha registrato un margine operativo lordo di circa un miliardo di euro, confermando il proprio ruolo strategico nel piano di transizione energetica del gruppo guidato da Claudio Descalzi. L’ingresso di nuovi investitori rientra nella strategia dei “satelliti” di Eni, volta a valorizzare le attività non legate agli idrocarburi e a raccogliere risorse per il loro sviluppo. Questo approccio ha già portato nel 2024 alla cessione del 25% di Enilive al colosso statunitense KKR, che ha investito 2,9 miliardi di euro tra acquisizione di quote e aumento di capitale.
Per il 2025, Eni punta a raccogliere 2,5 miliardi di euro da ulteriori cessioni di minoranza, che potrebbero includere non solo la vendita della quota di Plenitude, ma anche una seconda tranche di Enilive e l’ingresso di nuovi investitori nella divisione dedicata alle soluzioni per la cattura e lo stoccaggio della CO₂. Quest’ultima operazione ha già attirato l’interesse di Snam e di fondi internazionali. L’entrata di investitori istituzionali potrebbe essere il preludio a una futura quotazione in Borsa di Plenitude ed Enilive. Secondo il direttore generale di Eni, Francesco Gattei, il debutto sui mercati dipenderà dalle condizioni finanziarie globali: “Tanti sono interessati a una quota, ma dobbiamo bilanciare la valorizzazione a breve termine con l’IPO nel medio termine”, ha dichiarato a ottobre. Eni intende mantenere il controllo strategico sulle tempistiche di un’eventuale IPO, senza diluire eccessivamente la propria partecipazione.