Tajani apre campagna FI e incontra von der Leyen
L’apertura della campagna elettorale di Fi per le europee coincide con l’arrivo nella Capitale della presidente della Commissione europea: Ursula von der Leyen incontra il vicepremier Antonio Tajani che con FI e il Ppe la sostiene per un nuovo mandato, ma non vede la premier Giorgia Meloni e in serata diserta anche l’avvio della campagna azzurra. Nessun problema, però, assicurano da Bruxelles, con la presidente del Consiglio: “Non c’è alcuna ragione particolare dietro”. L’incontro con Tajani è avvenuto nella sede della Fondazione De Gasperi, dove l’arrivo di von der Leyen viene preceduto da un flash mob di protesta di alcuni studenti di Osa. L’incontro con Tajani è preceduto anche da un pranzo al Circolo degli Esteri al quale sono presenti tutti i Ministri e i capigruppo di FI.
In ogni caso, ha ricordato il leader azzurro, “con Ursula le cose vanno sempre bene”, aggiungendo anche che “il Congresso del Ppe ha votato la von der Leyen è il candidato votato dal Ppe, conta la democrazia.” Intanto però anche all’interno di FI spuntano i primi distinguo, specie dell’area Ronzulli, sul nome di von der Leyen. Tajani dà così il via ufficialmente alla campagna e spiega: “Abbiamo fatto delle liste non per accontentare due-tre che vogliono essere eletti. Abbiamo fatto delle liste competitive, non c'è nessuno che ha la garanzia di essere eletto”. Tajani ribadisce che “il voto a Fi è il più utile che si possa dare per il rinnovo del Ppe; il Ppe ancora una volta sarà il primo partito e sarà determinante per qualsiasi scelta all'interno delle istituzioni comunitarie”. Conclude, annunciando che “la chiusura della campagna elettorale sarà in piazza a Napoli il 6 giugno”.
I partiti sono al lavoro per il dopo Toti
L’inchiesta giudiziaria in Liguria prosegue, tra interrogatori e nuove rivelazioni, mentre la maggioranza esita a prendere una posizione ufficiale nei confronti del presidente Giovanni Toti. A parte il sostegno ricevuto dal Ministro della Difesa, Guido Crosetto, nessuno per ora si sbilancia sulla necessità o meno che il Governatore faccia o meno un passo indietro. Il centrodestra attende che venga prima ascoltato dai magistrati, interrogatorio che potrebbe avvenire entro la settimana. Dimissioni che vengono chieste però a gran voce dalle opposizioni: i rappresentanti di Pd, M5S e Azione in Consiglio regionale hanno scritto una lettera al presidente dell’assemblea Gianmarco Medusei in cui chiedono “nuove elezioni” e che il presidente della Regione lasci. La linea, comunque, l’ha già data la premier Giorgia Meloni: “Aspettare le risposte” di Giovanni Toti.
C’è chi non nasconde un retropensiero piuttosto diffuso nella coalizione: in vista delle europee, è auspicabile sottrarre la vicenda al clamore mediatico. La lancetta dell’orologio corre e tra i corridoi della Camera si comincia a ragionare sullo scenario che seguirà alle eventuali dimissioni di Toti. Voto anticipato in Liguria, quindi, che aprirebbe a una corsa elettorale tanto inaspettata quanto incombente. Tra gli alleati nessun partito sembra aver fretta di avanzare un suo candidato: le ipotesi di nomi forti circolate, quello del sottosegretario ai Trasporti Edoardo Rixi delle Lega, e quello del sindaco di Genova Marco Bucci, si sono scontrate per ora con le relative smentite. Ma iniziano a rimbalzare anche altri nomi: c’è chi fa quello del sindaco di Rapallo Carlo Bagnasco, chi nomina il deputato e coordinatore regionale di Fdi Matteo Rosso e chi guarda a Massimo Nicolò, ex vicesindaco di Genova, sempre in quota FdI. La cautela, però, resta massima. Mentre c’è chi, dall’altra sponda dell’emiciclo, si spende da mesi sul territorio e ha già dato la sua disponibilità a correre: l’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando, deputato del Pd. Non ha chiuso all’ipotesi Nicola Fratoianni, mentre per il M5S è ancora presto per parlare di nomi. E nelle fila dem c’è chi non escluderebbe un interessamento della senatrice Annamaria Furlan.
Meloni: no a rimpasto e sì alla riforma della giustizia in Cdm
Giorgia Meloni, chiude la rassegna “Il giorno de La Verità” alla Fondazione Catella di Milano e tocca tutti i temi caldi anche in vista del voto dell’8 e 9 giugno. Le europee non andranno a incidere sugli equilibri della maggioranza di governo, assicura: “Non ho mai pensato di fare un rimpasto, è una delle tantissime ricostruzioni forzate che leggo spesso. Tra gli obiettivi che mi sono data c’è quello di arrivare a cinque anni con il Governo che ho nominato. Questo non è mai accaduto nella storia d’Italia”. Sulla nuova Commissione Ue europea: “Bisogna vedere qual è la delega che l’Italia riesce a spuntare. Vorrei spuntare una delle più importanti, certamente la delega sull’economia piena, la competitività, il mercato interno, la coesione e la delega al Green deal” per “correggere un po’ il tiro. Possiamo dire che qualcosa non ha funzionato”. A tenere banco sono anche il capitolo riforme e la replica alle critiche sulla Rai. Il premierato ribadisce “è la madre di tutte le riforme, e auspico grandi convergenze. Ma se non dovessero arrivare ci rivolgeremo ai cittadini. Non sarà un referendum su di me, perché questa riforma riguarderebbe la prossima legislatura. Riguarda il futuro, e non tocca neanche l’attuale presidente della Repubblica”. Anche sulla Rai ribatte: “Sento da settimane dire Tele-Meloni, vorrei un servizio pubblico e non sempre l’ho visto” nel corso degli anni; “Giorgia Meloni su TeleMeloni è stata presente 15 minuti”, Mario Draghi per 19 minuti, Matteo Renzi 37 e Giuseppe Conte fino a 42 minuti. “Dove erano le anime belle del pluralismo quando accadeva questo? Non accetto queste accuse. Penso” che ci “siano perché non c’è più Tele-Pd”.
La maggioranza si compatta sul decreto superbonus, approvato in Senato
Dopo il via libera della commissione Finanze del Senato all’emendamento del Governo al decreto superbonus che dispone, tra l’altro, la rateizzazione in 10 anni dei crediti derivanti dal bonus per le spese effettuate nel 2024, è arrivata anche l’approvazione da parte del Senato. Il provvedimento per il quale il Governo ha ottenuto la fiducia, anche con i voti di Forza Italia, è passato a Palazzo Madama con 101 voti favorevoli, 64 contrari e nessun astenuto; ora verrà esaminato dalla Camera con un iter blindato, perché entro il 28 dovrà essere approvato definitivamente.
La misura riguarda i cittadini e le imprese, mentre per le banche viene allungata la rateizzazione da 4 a 6 anni solo per i crediti scontati a meno del 75% dell’importo dei lavori effettuati. La vera stretta sulle banche riguarda lo stop dal 1° gennaio 2025 alla possibilità di compensare i crediti del superbonus con i contributi previdenziali e Inail. L’emendamento del Governo rinvia di due anni, fino a luglio 2026, l’entrata in vigore della plastic tax; frutto di una riformulazione del Governo, il rinvio di un anno, fino a luglio 2025, dell’entrata in vigore della sugar tax. Arrivano poi due fondi, uno da 100 milioni a favore delle Onlus e un altro da 35 milioni per le aree colpite da eventi sismici che non rientrano già nella deroga prevista dal decreto. Le risorse saranno utilizzate per erogare dei contributi a compensazione dello stop allo sconto in fattura e cessione del credito.
Certo, se la spaccatura della maggioranza, con l'astensione degli azzurri in commissione Finanze, a colpo d'occhio può sembrare rientrata con questo esito, il nervosismo è ancora evidente: “Se la Lega avesse fatto solo la metà di quello che ha fatto Forza Italia, avrebbero dato tutti addosso a Salvini dandogli dell'irresponsabile”, è la battuta, captata dai cronisti, del capogruppo della Lega in Senato Massimiliano Romeo. Meno ironico l'intervento del presidente della Commissione Finanze Massimo Garavaglia: “Non è stato facile. Il gruppo di FI non solo si è astenuto sull'emendamento governativo ma ha anche votato con l'opposizione. Nonostante l'atteggiamento di FI l'emendamento è stato approvato e i lavori si sono chiusi in maniera ordinata “, ha esordito il leghista in dichiarazione di voto.
Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti lo rivendica ancora una volta: “Le previsioni della Commissione sono in linea con le nostre. Sul debito, purtroppo, gravano per cassa negli anni prossimi gli effetti negativi del Superbonus. D’altra parte, i dati europei sul rapporto debito/Pil non incorporano gli effetti dei recentissimi provvedimenti che avranno effetti positivi sui conti”, conclude. Le opposizioni escono dalla capigruppo dicendo che si tratta di “una fiducia politica” che la maggioranza “mette su se stessa”, perché “non si fida più di come vota Forza Italia”, spiegano Stefano Patuanelli (M5S) e Francesco Boccia (PD). Una volta approvato il provvedimento passerà alla Camera per l’approvazione definitiva.
Il Governo avanza sulle privatizzazioni, cede il 2,8% di Eni
Dopo Mps arriva Eni: il Governo di Giorgia Meloni va avanti nel piano delle privatizzazioni cedendo, con una procedura accelerata di raccolta ordini, una quota del 2,8% del gruppo in mano al Mef che scende così sotto il 2% del capitale (dal 4,797%); per le casse del Tesoro si tratta di un’operazione per un valore di 1,4 miliardi di euro. Il controllo pubblico sull’Eni resta tuttavia assicurato dalla partecipazione di Cdp che detiene il 28,503%. Voci di una cessione della partecipazione erano circolate già lo scorso gennaio anche se l’esecutivo, per voce del sottosegretario al Mef Federico Freni, aveva ricordato come “non c’è nessuna fretta di privatizzare ma che si privatizzerà bene, nei tempi giusti, nei momenti giusti” rispettando comunque l’obiettivo del Def 2023 che prevede, per i prossimi tre anni, cessioni pari all’1% del Pil (circa 20 miliardi di euro). Per il Tesoro si tratta di un passo avanti nelle privatizzazioni, ancora più preziose in un momento in cui i conti pubblici devono affrontare da qui ai prossimi anni le alte spese per il Superbonus che il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti ha definito “un Vajont”. La vendita della quota del 37,5% Mps in due tranche ha fruttato alle casse del Tesoro oltre 1,5 miliardi di euro aprendo poi l’interrogativo su cosa fare della restante quota del 26% e, in definitiva della banca senese: mantenersi come azionista della banca, cedere tutto sul mercato o agevolare una fusione con un altro gruppo per dare vita a un terzo polo bancario dopo Intesa Sanpaolo e Unicredit. L’elenco delle società pubbliche o con rilevanti quote pubbliche, oltre a Eni e Mps che potrebbero essere privatizzate anche solo in parte, è ampio: Enav, Enel, Poste, Leonardo cui si aggiungono quelle detenute da Cdp, ma si tratta di operazioni che non sembrano ancora essere state pianificate.
Salta il confronto tra Meloni e Schlein
Salta il confronto tv tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein. Il duello si sarebbe dovuto tenere nel salotto di Porta a porta il prossimo 23 maggio ma dopo la delibera Agcom che considerava legittimo il format del faccia a faccia a due solo se “accettato da una larga maggioranza delle liste in competizione elettorale e comunque dalla maggioranza delle liste con rappresentanza in Parlamento”, viale Mazzini prende atto dell’impossibilità di andare avanti. “Soltanto quattro delle otto liste rappresentate in Parlamento hanno accettato l’invito di Rai a un confronto a due tra leader sulla base della forza rappresentativa. Per questo motivo, in assenza della maggioranza richiesta dall’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni, Rai ritiene di non poter programmare alcun confronto nei termini precedentemente proposti”, comunica una nota in mattinata. A favore del format, oltre ai diretti interessati FdI e Pd, si erano espressi il vicepremier e segretario della Lega Matteo Salvini e anche il leader di Iv Matteo Renzi. Contrari invece l’altro vicepremier e segretario di FI Antonio Tajani (che si è detto disponibile a un confronto ‘all’americana’, tra tutti i leader), il segretario di Azione Carlo Calenda, il leader M5S Giuseppe Conte e Avs.
Gentiloni: tornare indietro sul Green Deal sarebbe errore storico
In un intervento al “Brussels Economic Forum” di Bruxelles, il Commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni ha sottolineato che, a venti giorni dalle elezioni europee, bisogna chiarire la necessità di continuare sulla strada del Green Deal, senza fare una marcia indietro che sarebbe “un errore storico”. Il Commissario ha anche insistito sull’urgenza, per finanziare almeno una parte della transizione green e digitale, di stabilire “strumenti comuni per obiettivi comuni” europei, come è stato fatto per la risposta alla pandemia con il “Next GenerationEU” che termina a fine 2026, per mobilitare investimenti pubblici a livello Ue e non solo a livello degli Stati membri. “Siamo alla fine della legislatura europea e dell’attuale Commissione. E penso che sia il momento giusto per ricordare il fatto che quando è nata l’attuale Commissione, il Green Deal europeo era il suo carattere distintivo. Poi ovviamente in questi cinque anni sono successe tante cose, la pandemia e l’invasione russa dell’Ucraina; ma a distanza di cinque anni credo sia giusto chiederci se ci stiamo pentendo della decisione presa quattro-cinque anni fa, di avere il Green Deal come profilo principale dell’attuale Commissione. E la mia risposta è decisamente no: non ci pentiamo, o almeno non dovremmo pentirci”.
Le motivazioni di questo “no” sono sostanzialmente due: “In primo luogo, a causa dell’urgenza della crisi climatica. La settimana scorsa sono usciti i dati Copernicus su ciò che è accaduto nell’aprile di quest’anno, che è stato di 1,58°C più caldo” rispetto alla media di aprile per il periodo preindustriale 1850-1900. “Quindi, per quanto riguarda l’aumento della temperatura a livello globale, siamo già oltre il limite di 1,5 gradi”, la soglia da non superare secondo l’Accordo di Parigi sul clima. “Ma non è solo l’urgenza; c’è anche il fatto che noi siamo in grado di realizzare la transizione verde. Vorrei solo ricordare un paio di dati. Innanzitutto, come stanno andando le emissioni: nell’Ue la riduzione del 2023 rispetto al 2022 è stata del 15,5%, che è ovviamente un numero significativo. Un secondo numero significativo, nel 2023 è stato quello della capacità di energia solare installata nell’Ue: 56 GW di energia solare, qualcosa di simile a 56 impianti nucleari di medie dimensioni in un anno”. Insomma, “le cose si stanno muovendo. Ma ovviamente noi, l’Ue, rappresentiamo solo il 7% delle emissioni globali”.
Scoppia il caso Borghi sul no alle bandiere Ue nei palazzi pubblici
Via la bandiera Ue dai Palazzi. È l’ultima proposta provocatoria del senatore leghista Claudio Borghi sulla quale scoppia un caso con le opposizioni all’attacco e gli alleati freddi a partire da FI. Il disegno di legge, che Borghi fa sapere di aver consegnato agli uffici del Senato, punta a cancellare l’obbligo introdotto nel nostro Paese con una legge del 1998 di esporre sugli edifici pubblici insieme al tricolore anche la bandiera dell’Europa. Per il senatore “La Bandiera Italiana è una sola: il tricolore affiancato quando possibile dalla bandiera della Regione”. Borghi, tra l’altro, per tutto il giorno difende la sua linea replicando via social alle critiche e postando le immagini dei parlamenti di altri Stati europei dove la bandiera non è esposta. “L’obbligo l’abbiamo solo noi. La mia proposta è quindi europeista perché punta ad adeguarci agli standard degli altri Paesi”. Si tratta di un testo a sua firma e che nella Lega viene commentato come iniziativa personale. Ma è dall’opposizione che arrivano le critiche più dure. “Mi sembra un passo avanti. Salvini non si riconosceva neanche nel tricolore. Mi aspetto presto una proposta per le bandiere delle contrade, dei sestieri e dei rioni. Da Ventotene al cortile di casa. Viva l’Europa”, dice la capogruppo Dem alla Camera Chiara Braga. “Non l’inflazione o la crescita inesistente e l’industria che continua a crollare ma la bandiera dell’Europa fuori dai palazzi, queste sono le priorità della Lega.”, attacca il presidente dei senatori M5S Stefano Patuanelli.
I sondaggi della settimana
Negli ultimi sondaggi realizzati dall’Istituto SWG il 14 maggio, tra i partiti del centrodestra in ascesa solo Fratelli d’Italia con + 0,2%, mentre indietreggiano gli alleati e Partito Democratico. Il partito di Giorgia Meloni si conferma primo partito italiano con il 26,8%. In seconda battuta il PD, che perde terreno e vede il distacco da FdI ampliarsi al 6,3%. Terza forza nazionale sempre il Movimento 5 Stelle (16,2%). In lieve flessione la Lega (-0,2%), insieme a Forza Italia (-0,2%), federatasi con Noi Moderati di Maurizio Lupi. Nella galassia delle opposizioni, i centristi Stati Uniti d’Europa invertono la ripresa e si arrivano al 4,6%; seguono Azione (4,4%) e Alleanza Verdi e Sinistra (4,4%), che rimangono entrambe sopra la soglia di sbarramento per le Europee. Chiudono il quadro settimanale Pace Terra Dignità di Michele Santoro (2,2%), Libertà di Cateno De Luca (2,4%), entrambe sotto la soglia di sbarramento.
La stima di voto per la coalizione di centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia) perde 0,2 punti mantenendosi saldamente al comando con il 43,7%. Il centrosinistra è secondo con il 24,9%; fuori da ogni alleanza, il M5S, guadagna un solo punto percentuale e registra un 16,2%. In flessione di 0,4% anche il Centro, che raggiunge il 9,0%.
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