La Meloni chiede una tregua agli alleati in vista del vertice dei volenterosi
Dopo una fine settimana di tensione, i partiti della maggioranza frenano e seguono l'invito che Giorgia Meloni avrebbe indirizzato ai suoi vicepremier: lo scenario internazionale è complicato e in continua evoluzione e bisogna rimanere concentrati e compatti, anche in vista del nuovo vertice dei volenterosi convocati ancora a Parigi giovedì, dove la presidente del Consiglio tornerà per ascoltare le proposte dei partner e per ribadire la sua posizione. La premier, all'Eliseo, continuerà a insistere sulla necessità, prima di ipotizzare invii truppe o forze di peacekeeping, di fissare quelle garanzie di sicurezza per l'Ucraina indispensabili per assicurare un accordo di pace “non violabile”, come ha ripetuto da ultimo anche in Parlamento la scorsa settimana.
La proposta italiana rimane quella di una formula da sottoscrivere da parte della comunità internazionale sulla falsariga dell'articolo 5 della Nato. La proposta, fanno notare dal Governo, “inizia a prendere sempre più piede” e, anzi, viene annoverata tra le “possibilità” anche dall'inviato speciale della Casa Bianca Steve Witkoff. Più che le incursioni di Matteo Salvini e le liti a mezzo stampa con Antonio Tajani, a preoccupare Palazzo Chigi è l'ipotesi che questa “finestra per un accordo di pace” si possa chiudere, con conseguenze non immaginabili al momento. L'auspicio è quindi che invece si riesca arrivare a un “accordo in tempi rapidi”.
L'altro campanello di allarme è quello per i dazi, che sarebbero un problema “economico e politico”. Le diplomazie continuano a lavorare su una prossima missione a Washington che però nessuno vede più come fattibile prima del fatidico 2 aprile. Nel frattempo, nella maggioranza è tregua. “Non serve un vertice, non ci sono problemi”, fa sapere FI tramite Raffaele Nevi, che minimizza anche quel “quaquaraquà” pronunciato da Tajani che tanto ha fatto infuriare i leghisti. E mentre Maurizio Lupi invita a smetterla con “canti, controcanti e slogan” soprattutto in politica estera, Matteo Salvini chiarisce: “Con Tajani abbiamo rapporti splendidi” anche se non è sfuggito a nessuno il colloquio tra il leader della Lega con il vicepresidente amicano J.D. Vance.
La politica ricorda le Fosse Ardeatine ma non mancano le polemiche
Con una corona di alloro, il silenzio e i nomi scanditi di ognuna delle 335 persone trucidate dai nazisti e nascoste nelle cave romane lungo la via Ardeatina, la politica ha reso omaggio alle vittime dell'eccidio del 1944. A farlo, a nome degli italiani, è stato il Presidente Sergio Mattarella, nella cerimonia che ha ricordato le Fosse ardeatine 81 anni dopo. Dalla premier Giorgia Meloni, è arrivato un messaggio che condanna “una delle ferite più laceranti inferte a Roma e all'Italia intera”, ricordando che l'eccidio fu “perpetrato dalle truppe naziste di occupazione come azione di rappresaglia per l'attacco partigiano di via Rasella”. Parole che, in controluce, rivelano un'omissione evidenziata da una parte dell'opposizione, Pd e Azione, e dai partigiani: per Meloni, la responsabilità fu esclusivamente dei nazisti. “Non una parola “sulla” attiva collaborazione e responsabilità dei fascisti come il questore Caruso”, denuncia il presidente dell'Anpi Gianfranco Pagliarulo. Il riferimento è al prefetto di Roma di allora Pietro Caruso, che, come ricorda Osvaldo Napoli di Azione, “fornì a Herbert Kappler un elenco di 50 prigionieri”, precisazione che, come era da immaginarsi, dà il via a parecchi botta e risposta tra maggioranza e opposizione.
I pontieri Ue volano in Usa per aprire il dialogo sui dazi
L'influente capo di gabinetto di Ursula von der Leyen, il tedesco Bjorn Seibert, non si muove spesso senza la presidente della Commissione, se lo fa è un fatto politico. La questione dei dazi preoccupa non poco l’Ue: il 2 aprile è dietro l'angolo e nelle cancellerie europee, in vista dell'entrata in vigore delle tariffe annunciate da Donald Trump, sta montando un crescente allarme. È in questo contesto che si è inserita la seconda missione della Commissione Ue oltreoceano; il titolare della delega al Commercio Maros Sefcovic è volato nuovamente a Washington con due appuntamenti chiave in agenda: il primo con il negoziatore sul Commercio dell'amministrazione Trump, Jamieson Greer, il secondo con il segretario di Stato per il Commercio Howard Lutnick. Ma rispetto alla precedente missione questa volta, ad accompagnare Sefcovic, c'è il braccio destro di von der Leyen.
Non è escluso che l'agenda di Seibert negli Usa sia diversa da quella del Commissario europeo. La linea di Bruxelles è stata quella dell'apertura al dialogo ma, allo stesso tempo, della fermezza nella risposta a Trump, linea che von der Leyen ha ribadito anche nel corso del pranzo del Consiglio Ue. Sui dazi la presidente della Commissione ha recapitato al tavolo dei 27 anche un invito all'attesa, con un motivo su tutti: l'imprevedibilità di Trump. È proprio questa mancanza di certezza, tuttavia, ad aver portato in questi giorni Bruxelles a calcare più la strada del dialogo. L'Ue, che aveva stilato una nutrita lista di prodotti americani sui quali applicare le tariffe come risposta a Trump, giovedì scorso ha optato per rinviare a metà aprile i dazi al 50% su alcuni prodotti, il whiskey in primis.
Lo stesso Trump, nelle sue ultime dichiarazioni, è sembrato frenare sulla portata delle tariffe del 2 aprile, che potrebbero risparmiare settori come auto, chip e farmaci. “Le tariffe sono un'arma a doppio taglio. L'Ue è pronta a negoziare e a rivedere la lista dei prodotti”, è stata l'apertura ribadita dal commissario all'Agricoltura Cristophe Hansen in visita a Roma. Il Governo italiano, del resto, è tra quelli che predica maggiormente la calma su eventuali ritorsioni: “Ancora non è stata presa nessuna decisione da parte americana” sui dazi, “ci sono stati degli annunci, vedremo, gira voce che si potrebbe anche rinviare”, ha sottolineato il Ministro degli Esteri Antonio Tajani.
La Lega rilancia sull’autonomia: niente scherzi sui Lep
La Lega torna a rilanciare sull’Autonomia e in attesa dei decreti sui Livelli essenziali di prestazioni e servizi, che renderanno operativa la riforma, avvisa gli alleati: non si facciano scherzi. Il messaggio viene da Riccardo Molinari, capogruppo del Carroccio alla Camera e portavoce nei giorni scorsi dell'ennesimo distinguo del suo partito sul fatto che Giorgia Meloni non avesse il mandato a votare il piano di riarmo europeo di Ursula von der Leyen. Sul futuro dell'autonomia differenziata diventata legge a giugno, il leghista avverte: “Non vorremmo che ci fossero frenate nei ministeri per qualcosa che è un punto fondamentale dell'alleanza di governo”. La paura non detta è che, sui Lep o sulle materie non Lep, alcuni Ministri (non leghisti) possano mettersi di traverso o temporeggiare. Il pensiero corre alla gestione delle emergenze (dalle alluvioni ai terremoti, ad esempio) che spetta ora al ministero di Nello Musumeci visto che ha anche la delega alla Protezione civile, la stessa su cui puntano alcuni governatori, a partire dal leghista Luca Zaia.
Altro tema potrebbe essere l'export: Forza Italia vuole che resti una competenza nazionale e non decidano le Regioni. Di certo la riforma sarà al centro della giornata organizzata dalla Lega sabato a Padova e intitolata la “sfida dell'autonomia”, un'occasione, per Matteo Salvini, per rassicurare il fronte nordista del partito ma anche per raccogliere i consensi (e cioè le firme) sulla mozione del segretario della Liga Veneta, e numero due di Salvini, Alberto Stefani. Il documento scommette sulla difesa dell'identità locale, l'autonomia e il federalismo intesi come “il DNA di questo movimento”. Quella di Stefani è una delle 5 mozioni proposte per il Congresso federale della Lega del 5 e 6 aprile, dove Salvini non sarà messo in discussione. E a difendere l'attivismo internazionale di Salvini è di nuovo Molinari.
Tensione sul caso Santanchè: FdI ribadisce la linea: lascerà se rinviata a giudizio
La Ministra del Turismo Daniela Santanchè “ritocca” il suo team di avvocati e rischia di far saltare l'udienza preliminare sulla presunta truffa all'Inps sulla cassa integrazione Covid. “Io non ho cambiato nessun avvocato, è una fake news”, chiarisce la Santanchè, “Il mio avvocato è Nicolò Pelanda, ho aggiunto l'avvocato Salvatore Pino sostituendo la civilista, siccome qua si parla di penale”. Chi pensa che sia una mossa per perdere tempo “dovrebbe leggere le cose. Non ho cambiato avvocato, non sono state depositate istanze e poi anch’io avrò il diritto di difendermi, no?”. In caso di rinvio a giudizio, in ogni caso, la strada sembra tracciata: “Noi riteniamo, come ha detto il Ministro, che nel momento in cui ci dovesse essere un rinvio a giudizio si arriverebbe a una presa d'atto della necessità di lasciare l'incarico”, le parole del capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera Galeazzo Bignami, “Non perché stia governando male il turismo, dove anzi abbiamo dei dati premianti, ma per garantire a lei la possibilità di difendersi nel modo più sereno possibile”.
Dal canto suo, la Santanchè chiarisce che le dichiarazioni di Bignami “le ho trovate giuste. Nel senso che io ho parlato chiaro in Parlamento: ho detto che se dovesse arrivare il rinvio a giudizio farò le mie valutazioni. L'ho detto nel Parlamento che la sede è più istituzionale dove io potessi parlare, ma il fatto che ho cambiato l'avvocato è una fake news”. Anche il responsabile dell'organizzazione di FdI Giovanni Donzelli risponde alle domande sul futuro della Ministra e ribadisce la linea di FdI. Pronta la replica dall'opposizione: il presidente del M5S Giuseppe Conte attacca: “Ha cambiato avvocato? Un bel trucchetto, complimenti Ministra Santanché. Agisce sulla scia di celebri maestri puntando alla prescrizione”, “Non trovate disdicevole tutto questo? Cosa dobbiamo aspettare per le dimissioni?”, si chiede. E poi chiama in causa direttamente la premier: “Presidente Meloni, ma lei è proprio ricattata dalla Ministra Santanché, eh? È questo il vostro modo di onorare le istituzioni?”.
Meloni parteciperà al congresso di Azione nel weekend
Al congresso di un partito di opposizione è una prima, anche se già, a inizio legislatura, si era presentata a casa della Cgil di Maurizio Landini. Ma “lei non è una che si sottrae, l'hanno invitata e va”, anche a dimostrazione del fatto che esiste una “opposizione responsabile con cui si può dialogare”. È tutta politica, anche agli occhi dei suoi, la scelta di Giorgia Meloni di intervenire sabato mattina alla prima giornata del congresso di Azione. Ma non sarà l'unico ospite di maggioranza di Carlo Calenda: il segretario, confermato a metà febbraio dai circa 13.700 iscritti, chiamerà sul palco anche Guido Crosetto, Antonio Tajani e pure Giancarlo Giorgetti, tre Ministri titolari di dicasteri, la Difesa, gli Esteri e l'Economia, su cui da destra registrano “punti di contatto”. I più maliziosi intravedono nella scelta di invitare la Meloni anche “un dispetto” a Matteo Renzi, l'altro protagonista terzopolista.
Certo il suo gesto “legittima” Calenda come interlocutore a differenza di “Schlein o Conte” che peraltro “non l'hanno mai invitata”, scherzano i meloniani, ricordando che su molti temi in questi due anni e mezzo di governo Azione si è dimostrata “una opposizione con cui si può parlare”. Da ultimo, sulla mozione di sfiducia a Carlo Nordio il partito di Calenda marcherà una differenza dalle altre opposizioni uscendo dall'Aula al momento del voto, perché “presentare mozioni di sfiducia è il più grande regalo alla maggioranza che si possa fare, come dimostra il caso Santanchè”, ha ripetuto il capogruppo alla Camera Matteo Richetti. Da Azione sono partiti inviti a tutte le forze politiche, spiegano nel partito, ed è stata accolta con piacere la risposta di Meloni, cui viene riconosciuta la coerenza nella posizione sull'Ucraina.
Nordio supera il voto di sfiducia mentre l’Anm sale al Colle da Mattarella
La Camera ha bocciato la mozione di sfiducia delle opposizioni contro il ministro della Giustizia Carlo Nordio nel mentre l'Anm è stata ricevuta al Quirinale. La mozione di sfiducia nasce dal caso Almasri ma le tensioni sulla giustizia, soprattutto quelle tra toghe ed esecutivo, sono ancora concentrate sul disegno di legge costituzionale che, dopo il primo via libera a Montecitorio, è all'esame del Senato dove ha ottenuto ieri il parere favorevole della Commissione Giustizia. Sono da poco passate le 9.30 quando Carlo Nordio prende la parola in Aula alla Camera per rispondere alle accuse delle opposizioni che, dice il Guardasigilli, ricordano “un'inquisizione, in un cahier de Doléances cui sembrano mancare solo le accuse di simonia e bestemmia”. Sulla vicenda del generale libico, arrestato e poi liberato e riportato a casa a bordo di un volo di Stato, il Ministro ribadisce: “Non sono un passacarte” e “le richieste della Corte penale internazionale sollevavano dubbi e contenevano inesattezze”.
Dura la replica delle opposizioni: la segretaria del Pd Elly Schlein bolla la vicenda come “una delle pagine più vergognose cui questo Parlamento è stato sottoposto”, “Nordio è diventato l'alfiere del populismo panpenalista e non può continuare a ricoprire il ruolo di Ministro, perché ha scelto la ragione di partito a quella del diritto”. Per Angelo Bonelli di Avs, “le dimissioni sono un atto di igiene politica per il Paese perché Nordio non può venire qui a mentire e dire che un Ministro non è un passacarte”. “L'Italia si vergogna di ciò che è avvenuto”, sottolinea il deputato M5S Federico Cafiero De Raho, mentre Riccardo Magi di Più Europa rincara la dose: “Non eseguire il mandato di cattura su Almasri ci ha declassati a uno di quegli staterelli un po' canagliette”, e la capogruppo di Italia viva Maria Elena Boschi taglia corto: “Nordio ha mentito in aula e per questo deve dimettersi”.
Dal canto suo il Ministro si difende dalle critiche: “Il sospetto è che tutti gli attacchi che riceviamo, che arrivano in modi sciatti, siano programmati per evitare la madre di tutte riforme, legata alla separazione delle carriere e al sorteggio. Spero di sbagliarmi ma voglio essere chiaro: quali che siano gli attacchi, non vacilleremo e non esiteremo. La riforma andrà avanti”. Mentre la Camera respinge, con 215 voti contrari e 119 favorevoli, la mozione contro il Guardasigilli, la giunta dell'Anm è stata ricevuta al Quirinale dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Sono da poco passate le 12.00: in Transatlantico, Nordio commenta “soddisfatto” il voto contro la sfiducia e ribadisce “l'auspicio di un dibattito civile e leale, senza contrapposizioni”, che finora è mancato. Negli stessi minuti, al Colle, le toghe mostrano, nell'incontro con Mattarella, “preoccupazione per i frequenti attacchi rivolti alla magistratura negli ultimi mesi”. “A me non piacciono le polemiche”, dirà poco dopo il presidente dell'Anm Cesare Parodi, “noi di certo continueremo a manifestare le nostre idee con correttezza e dignità. Se avremo degli atteggiamenti egualmente corretti ne saremo lieti e se le altre parti avranno per scelta un atteggiamento diverso ne prenderemo atto ma non cambierà la nostra linea. Noi siamo per il dialogo”. Intanto però l'incontro con l'Anm, proprio sul tema efficienza, slitta a data da destinarsi.
Meloni condivide la linea sull’Ucraina in vista della riunione dei volenterosi
L'Italia non è disponibile a inviare proprie truppe militari in Ucraina nello scenario proposto da Francia e Germania, diverso sarebbe se prendesse corpo una missione di “monitoraggio” sotto l'egida dell'Onu. In poco meno di un'ora di vertice a Palazzo Chigi è stata definita la linea con cui Giorgia Meloni si presenterà al summit dei volenterosi a Parigi. Il comunicato ufficiale mette nero su bianco la posizione condivisa, dopo giorni di forti fibrillazioni, soprattutto fra Matteo Salvini e Antonio Tajani. “Basta liti in pubblico”, sarebbe stato l'avvertimento ai suoi vice da parte della premier preoccupata che distinguo e sgambetti interni sui temi di politica estera possano creare problemi al Governo, offrendo peraltro il fianco agli attacchi sempre più intensi delle opposizioni.
La ricostruzione è smentita in serata dall'ufficio stampa di Palazzo Chigi che parla di una “salda convergenza” e di nessuna “intimazione” da parte della premier facendo riferimento all'esito della riunione riportato dalla nota ufficiale. Al vertice era presenta anche il ministro della Difesa Guido Crosetto, nonché diplomatici e militari, una riunione di carattere operativo, dunque, non solo politico: sul tavolo gli scenari di una situazione geopolitica in continua evoluzione. Ma prima vanno messe da parte le tensioni interne, montate fra i disallineamenti sul ReArm Europe, i dazi, la telefonata di Matteo Salvini al vicepresidente Usa JD Vance e le parole di Tajani sui “populisti quaquaraquà”. Meloni li ha voluti riunire per arrivare a Parigi con un mandato chiaro: il momento è di quelli estremamente complicati, va ripetendo, non c'è margine per mostrare crepe, in particolare sulle questioni internazionali. Salvini a fine vertice si presenta a una conferenza stampa della Lega dicendo che è andata “benissimo”, liquidando “certi retroscena surreali” e rifilando l'ennesima stoccata all'Ue: “Dovrebbe permetterci di fare debito sano per la sanità, non per fare guerre”.
Antonio Tajani preme sui colleghi di Governo affinché si scelga il coordinamento con l'Ue per mettere a punto le risposte ai dazi americani e insiste sulla necessità di aprire un dialogo con Berlino, anche caldeggiando un incontro fra Meloni e il cancelliere in pectore Friedrich Merz, per bilanciare l'asse che sta prendendo forza fra Parigi e Londra. Bisogna stare in campo, la sintesi della sua moral suasion, per influenzare le decisioni in questo momento. Poco dopo arriva il comunicato di Palazzo Chigi: s’indica il “contesto euroatlantico” come cornice in cui costruire “garanzie di sicurezza solide ed efficaci” per Kiev, “insieme ai partner europei e occidentali e con gli Usa”. Si sottolinea che l'idea di mutuare l'articolo 5 della Nato (sulla difesa collettiva di un alleato attaccato) “sta riscontrando sempre più interesse tra i partner internazionali”. E soprattutto si ribadisce che “non è prevista alcuna partecipazione nazionale ad una eventuale forza militare sul terreno”. Quindi, non c'è margine per aderire a una strategia come quella dei 'volenterosi', promossa da Emmanuel Macron e Keir Starmer.
Le mozioni sulla politica estera dividono le opposizioni in Parlamento
È risiko di mozioni tra le opposizioni. Dopo il testo depositato da Azione per continuare a sostenere l’Ucraina, portare la spesa militare al 2%, continuare “a lavorare con i volenterosi per dare all'Ucraina quei materiali bellici che le servono per resistere” ed “essere pienamente dentro il processo di costruzione di una politica di difesa comune e tendere a un esercito comune”, è il M5S ad annunciare una nuova mozione: “Il Parlamento deve votare su questo piano di riarmo. Non possono portarci a un'economia di guerra senza neppure il voto dei cittadini”, dice chiaro Giuseppe Conte, “In queste ore la Commissione Ue ha anche varato un piano per allarmare i cittadini. Ci chiedono di riempire le nostre case con scorte alimentari, ma i cittadini non riescono neanche a riempire il carrello della spesa. Ci chiedono di fare scorta di farmaci, ma i cittadini non possono comprare farmaci”.
Il testo impegna il Governo a “non proseguire nel sostegno del piano di riarmo europeo ReArm Europe/Readiness 2030” e “sostenere nelle opportune sedi europee la sostituzione integrale” con “un piano di rilancio e sostegno agli investimenti” sulle priorità politiche dell'Ue, dalla spesa sanitaria all'istruzione, passando dal sostegno alle filiere produttive e industriali, “per rendere l'economia dell'Unione più equa, competitiva, sicura e sostenibile”. All'iniziativa pentastellata si associa prontamente Avs. E se Giuseppe Conte rilancia l'appuntamento del 5 aprile, i leader di Avs rispondono presente: “Siamo stati invitati e ci saremo”. Diversa la partita che è costretto a giocare il Pd: dopo aver raggiunto un difficile equilibrio interno nella risoluzione votata compattamente dai dem dopo le comunicazioni di Giorgia Meloni la scorsa settimana, Elly Schlein rischia di dover tornare a sminare un terreno complicato; “Il nostro no al riarmo lo abbiamo espresso nella risoluzione, chiedendo una revisione radicale del piano”, assicurano i dem, e poi ammettono che “Andiamo avanti un passo alla volta, ogni giorno ha la sua grana”.
Eppure, proprio della “necessità di accelerare e strutturare” il percorso di costruzione dell'alternativa, “ragionando sul come”, avevano discusso, in una lunga chiacchierata nel cortile d'onore della Camera, Elly Schlein, Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, al termine dell'esame della mozione di sfiducia presentata dalle opposizioni (a eccezione di Azione) nei confronti del ministro della Giustizia Carlo Nordio e poi respinta dall'assemblea. Alla segretaria Pd e ai coportavoce di Avs si era aggiunto poi anche il segretario di Più Europa Riccardo Magi. I leader, secondo quanto viene riferito, hanno esaminato il dossier Giustizia e valutato come mettere in evidenza, in questa fase, le divisioni della maggioranza, specie sulla politica estera. La mozione del M5S, arrivata neanche un'ora dopo, ha complicato, però, anche il quadro delle opposizioni. Non è passata inosservata, poi, la scelta di Carlo Calenda di invitare al Congresso di Azione “Meloni e mezzo governo”. Ad ogni modo, l’impressione è che fra le diverse anime delle opposizioni le distanze siano ancora grandi e che il vero dibattito per la costruzione di un’alternativa non sia ancora partito o quantomeno non sia ancora riuscita a dare segni concreti di concretezza.
Trump annuncia i dazi sulle auto importante dall’Europa
Donald Trump annuncia che colpirà con i dazi le auto importate, una mossa che nelle intenzioni del presidente americano servirà a stimolare la produzione nazionale, ma potrebbe anche mettere a dura prova le finanze delle case automobilistiche che dipendono dalle catene di forniture globale e tradursi in costi più elevati per i consumatori americani, con il rischio di un impatto anche contro la stessa industria americana, tra una riduzione dei profitti e un raffreddamento degli investimenti. Trump ha dichiarato sin dall'inizio del suo ritorno alla Casa Bianca che le tariffe sulle importazioni di auto sarebbero state una priorità della sua presidenza e infatti le ha annunciate subito contro Canada e Messico per poi deciderne la sospensione di un mese dopo le proteste delle case automobilistiche. Adesso il Presidente americano sembra più determinato che mai: “Ricominceremo a costruire automobili, cosa che sappiamo fare da molto tempo”, ha dichiarato lunedì il tycoon. È bastata la notizia dell'annuncio dell'imposizione di dazi sulle auto a far crollare i mercati azionari.
La misura del presidente americano potrebbe anche innescare ulteriori scontri commerciali con paesi stranieri, in particolare con nazioni europee come Germania e Italia, ma anche il Giappone e la Corea del Sud. Quasi la metà di tutti i veicoli venduti negli Stati Uniti, infatti, sono importati come è d'importazione quasi il 60% delle parti dei veicoli assemblati negli Usa. I dazi sulle auto si inseriscono nell'ambito di una vasta riorganizzazione delle relazioni commerciali globali da parte di Trump che culminerà il 2 aprile, “il giorno della liberazione” come l'ha chiamato il presidente, con l'imposizione di dazi reciproci ai “dirty 15”, ossia ai 15 Paesi con cui gli Usa hanno il peggior squilibrio commerciale, tra cui Paesi dell'Ue. La Commissione Ue sostiene che “il piano finale degli Usa sui dazi non è ancora chiaro ma le tariffe si applicheranno per tutti e 27” i Paesi membri.
Secondo il commissario Ue al Commercio Maros Sefcovic, martedì negli Usa per incontrare i negoziatori americani, i dazi si aggirerebbero attorno al “20%”. Nei suoi colloqui con il segretario al commercio americano Howard Lutnick, il rappresentante commerciale Jamieson Greer e Kevin Hassett, direttore del National Economic Council, Sefcovic ha avvertito che una tariffa del 20% sulle importazioni dall'Ue sarebbe “devastante” per il blocco. Bruxelles ha iniziato a preparare una seconda tranche di dazidi ritorsione qualora Trump confermasse le misure aggiuntive la prossima settimana. L'Europa ha già stilato un pacchetto da 26 miliardi di euro, dopo che gli Stati Uniti hanno colpito tutto l'acciaio e l'alluminio, che si applicherà dal 12 aprile. La premier italiana Giorgia Meloni ha rassicurato le aziende del made in Italy spiegando che i prodotti italiani, soprattutto quelli agricoli si tutelano con la diplomazia”.
A Parigi tornano a riunirsi i Volenterosi
Nessuno si fida di Vladimir Putin. Nessuno, pur accogliendo positivamente i colloqui in Arabia Saudita, crede che in questo momento il Cremlino voglia la tregua. All'ombra dell'Eliseo si ritrova la Coalizione dei Volenterosi: 29 Paesi, più l'Ue e la Nato, riuniti a Parigi hanno ribadito a Volodymyr Zelensky che nulla, nel breve termine, cambierà nel sostegno all'Ucraina. “La Russia finge di trattare e non consentiremo che passi alcuna delle contro-verità spinte da Mosca in questi giorni”, è la linea di Emmanuel Macron al termine del vertice, una riunione nella quale “all'unanimità” i partecipanti hanno deciso che le sanzioni contro la Russia, nonostante le condizioni poste dal Cremlino per una tregua, non saranno revocate. Il vertice di Parigi è durato poco più di una mattinata, anticipato dalla telefonata di Macron a Trump e da una mini-riunione tra Parigi, Londra, Kiev e la Nato. Attorno al tavolo si è partiti innanzitutto da alcuni punti fermi: il sostegno, militare e civile, all'Ucraina; la mancanza di fiducia per la reale volontà di Mosca a negoziare; la necessità di dare garanzie di sicurezza all'Ucraina. A queste certezze si è aggiunto un duplice dato politico: il primo è il formarsi di una sorta di nuova alleanza europea, che va oltre i confini comunitari ed esclude Paesi considerati vicini a Mosca come l'Ungheria.
Il secondo è stato fotografato dal presidente della Finlandia Alexander Stubb, che ha assegnato a Londra e Parigi “un ruolo guida” della Coalizione, che, hanno spiegato fonti Ue, non si è tramutato in un'assegnazione formale a Macron e Keir Starmer della funzione di negoziatori. Zelensky è arrivato a Parigi con una convinzione: “Putin vuole dividere l'Europa dall'America e non vuole la pace”. Ha poi aggiornato l'elenco degli equipaggiamenti militari di cui ha bisogno e ha avvertito i suoi alleati delle reali intenzioni di Putin: preparare un'offensiva in tre regioni, Sumy, Kharkiv e Zaporizhzhia. I Volenterosi sono convinti che lo Zar voglia solo prendere tempo e per questo, pur senza più gli Usa saldamente alle spalle, “l'Europa si mobilita come non si vedeva da decenni”, ha evidenziato Starmer.
“La Coalizione è più grande e forte”, ha ribadito Ursula von der Leyen annunciando che l'Ue anticiperà la sua parte di prestiti messi in campo dal G7, dal valore di circa 18 miliardi. È sull'invio di truppe che i Volenterosi non hanno ancora una linea comune: lo scetticismo del governo spagnolo è noto da tempo, mentre la premier italiana Giorgia Meloni ha ribadito che non invierà militari in Ucraina. Londra e Parigi invieranno una task force a Kiev per “preparare l'esercito ucraino di domani”, ha affermato Macron annunciando, al tempo stesso, una possibile “forza di rassicurazione” da inviare in Ucraina dopo la pace. Non una forza di peacekeeping, e neanche delle truppe dispiegate sulla linea di contatto, ma una forza composta da diversi Paesi europei, dispiegata in luoghi strategici e dal carattere “dissuasivo” rispetto ad eventuali escalation, un’iniziativa che Putin respinge con nettezza.
Meloni rilancia la posizione italiana e cerca una sponda sugli Usa
Per Kiev servono “garanzie di sicurezza solide e credibili” che devono ancorarsi al “contesto euroatlantico” e non possono prescindere da un ruolo degli Stati Uniti che, anzi, andrebbero coinvolti nel prossimo incontro dei 'volenterosi'. Giorgia Meloni si presenta a Parigi nel giorno in cui il suo Governo, come annuncia di prima mattina sui social, conquista il quinto posto tra i più longevi della storia repubblicana. Rivendica la “coesione” della sua maggioranza nonostante nei giorni scorsi si era registrato proprio sulla postura nei confronti dell'Ucraina più di uno scricchiolio. Solo esecutivi stabili possono dare “risposte concrete” ai cittadini, il ragionamento ripetuto dalla premier rilanciando la riforma del premierato che, dice, “intanto procede in Parlamento”. A dimostrate che l'azione dell'esecutivo non si ferma, arriva in Cdm un decreto-legge per attivare come Cpr i centri in Albania, e pure uno sulla cittadinanza. Meloni prima di partire per la capitale francese aveva condiviso con gli alleati la posizione da presentare al tavolo voluto da Emmanuel Macron e Keir Starmer: e quando prende la parola tra la trentina di colleghi ribadisce, tra le altre cose, che non è nei piani dell'Italia “alcuna partecipazione nazionale a un’eventuale forza militare sul terreno” e che bisogna continuare a “lavorare con gli Stati Uniti per fermare il conflitto e raggiungere una pace che assicuri la sovranità e la sicurezza dell'Ucraina”.
Parole su cui incassa subito il plauso della Lega, che fa sapere di apprezzare la linea del Governo italiano “saggia e prudente con la richiesta di coinvolgere gli Stati Uniti” perché “mai come ora si sta lavorando per la pace” ed è “doveroso abbassare i toni e soffocare le pulsioni belliciste”. Mentre la premier è impegnata in Francia, dal Colle intanto Sergio Mattarella, ricevendo l'Aeronautica militare, continua a sottolineare i pericoli, “dalle minacce ibride all'uso strategico dello spazio”, letto da molti come un riferimento a Starlink di Elon Musk, e a ribadire la necessità che l'Europa in questa situazione abbia uno scatto e “prenda la strada di decisioni veloci e di una difesa europea”. “Il nuovo contesto strategico internazionale” dice il Presidente della Repubblica “richiederà conseguenti processi decisionali” sia nel contesto “dell'Alleanza atlantica” sia per la Ue che si trova davanti a decisioni “non più rinviabili”. Davanti ai partner Meloni ha ripetuto la proposta italiana, avanzata fin dalle prime riunioni, di “un modello che in parte possa ricalcare quanto previsto dall'articolo 5 del Trattato di Washington” per assicurare che un accordo di pace “giusta e duratura” sia anche “non violabile”, un'idea che, ripetevano ai piani alti dell'esecutivo anche nei giorni scorsi, non era dispiaciuta nemmeno al vicepresidente Usa J.D.Vance.
L'Ue è pronta a rispondere a Trump, dai controdazi massimo impatto
Gli annunci di Donald Trump ormai non sorprendono più. In un clima da piena guerra commerciale Bruxelles è decisa, se necessario, a colpire l'economia americana dove può generare “il massimo impatto”. Dietro il pugno duro però si cela il doppio registro di Ursula von der Leyen: mostrare i muscoli a Washington mantenendo tuttavia vivo il dialogo per scongiurare un'escalation che potrebbe colpire le eccellenze industriali e agroalimentari delle big Ue. “Serve un accordo negoziato”, è il leitmotiv che riecheggia da Palazzo Berlaymont sulla spinta di Roma e Parigi, anche se la via diplomatica, invocata anche dall'industria dell'auto continentale, per ora non ha portato frutti: fallita la missione in America, il commissario Ue al Commercio Maros Sefcovic è volato a Pechino in cerca di sponde in un Oriente altrettanto in trincea. Il fentanyl è un pretesto usato da Trump per ordinare le sovrattasse, ha attaccato il Dragone, respingendo l'offerta del tycoon di sconti sui dazi in cambio del via libera alla vendita di TikTok. Oltre alla rappresaglia in sé, a tenere banco in Europa sono i calcoli politici sui simboli americani da colpire.
I “controdazi intelligenti”, rinviati dal primo al 13 aprile, in risposta alla raffica di tariffe di Trump su acciaio e alluminio restano in fase di definizione. L'elenco, del valore di oltre 21,5 miliardi di euro, sarà mirato a “provocare il massimo impatto sugli Stati Uniti, riducendo al minimo i danni per l'economia europea”, ha garantito il portavoce della Commissione, dopo il “grande rammarico” espresso da von der Leyen per la decisione americana. I funzionari Ue lavorano con il bisturi: dal vecchio arsenale anti-Trump potrebbero essere depennati alcuni marchi iconici come il bourbon per evitare ritorsioni su prosecco, champagne e cognac. Italia e Francia tengono alta la guardia a difesa delle loro bollicine, ma a temere il rischio boomerang è anche l'automotive già alle prese con la svolta green e il dumping cinese. A Bruxelles l'unica certezza è che, senza una retromarcia di Trump, la replica sarà “ferma, calibrata e tempestiva”.
Con questa premessa Emmanuel Macron ha rilanciato il suo appello alla Casa Bianca: fermarsi prima che sia troppo tardi “È paradossale che siano proprio gli alleati più stretti a finire nel mirino”, ha detto l'inquilino dell'Eliseo dopo aver riunito i volenterosi per Kiev, ribadendo una posizione condivisa tra i Ventisette: i dazi non sono solo un errore economico, ma anche una scelta geopolitica controproducente capace di scatenare una guerra che, nelle parole del vicepremier Antonio Tajani, “non conviene a nessuno”. Il messaggio è condiviso anche a Oriente, dove Sefcovic è arrivato per tessere la tela alternativa dell'Europa cercando da un lato di raffreddare le tensioni sulle auto elettriche e dall'altro di strappare garanzie sulla concorrenza leale utile a tenere a bada dumping e sovraccapacità industriale, nodi destinati ad aggravarsi con la possibile linea dura Usa.
Meloni esulta per i risultati sul Pnrr ma le opposizioni attaccano
La Cabina di regia Pnrr ha adottato la sesta Relazione sullo stato di attuazione del Piano. Nel corso della riunione a Palazzo Chigi, il ministro per gli Affari europei Tommaso Foti ha illustrato il lavoro svolto dal Governo nel secondo semestre 2024 per conseguire, secondo quanto riferito, tutti gli obiettivi programmati che hanno consentito all'Italia di ricevere il pagamento della quinta rata, pari a 11 miliardi di euro, della sesta da 8,7 miliardi e di richiedere il pagamento della settima, pari a 18,3 miliardi di euro, connessa al conseguimento di 67 obiettivi. La sesta relazione al Parlamento “conferma il primato europeo dell'Italia nella sua realizzazione, per numero di obiettivi conseguiti, per risorse complessive ricevute e per numero di richieste di pagamento formalizzate e incassate”, scrive la presidente del Consiglio Giorgia Meloni nella premessa del documentato.
“Abbiamo ancora molto lavoro da fare, ma i risultati raggiunti finora ci rendono orgogliosi”. Il Ministro Foti, dal canto suo, rimarca: “Ora è il momento delle responsabilità. L'attività proseguirà nei prossimi mesi e vedrà il Governo Meloni, le amministrazioni, le prefetture, i soggetti attuatori e tutte le Istituzioni preposte produrre il massimo sforzo per raggiungere gli obiettivi inseriti nelle ultime tre rate del Piano, anche attraverso un suo eventuale aggiustamento”. Certo è che il giudizio della Corte dei Conti è in chiaroscuro: secondo i magistrati contabili, “il raggiungimento degli obiettivi qualitativi e quantitativi, stabiliti a livello nazionale e concordati a livello europeo, è in linea con le previsioni, mentre permangono alcune criticità che richiedono attenzione costante e interventi mirati, soprattutto in vista della scadenza del Piano fissata a giugno 2026”.
Sul fronte finanziario, i dati della piattaforma ReGiS mostrano un rinvio di spese programmate per il biennio 2023-2024 pari a circa 2,4 miliardi di euro, con un conseguente incremento della spesa di 1,2 miliardi nel 2025 e 680 milioni nel 2026. “La carenza di personale negli uffici di rendicontazione e controllo ha prodotto un rallentamento sulle verifiche di spesa” e “il mancato regolare aggiornamento dei dati sulla piattaforma ReGiS da parte di alcune amministrazioni coinvolte”. Sulle indiscrezioni di stampa secondo cui il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti sarebbe pronto a chiedere all'Ue il rinvio di un anno per il Piano dal 2026 al 2027, il Mef non commenta ma, intanto, le opposizioni attaccano e chiedono un'informativa urgente della premier in Aula. La richiesta a Montecitorio è stata lanciata da deputati di Pd, M5S, Avs, Iv e Azione.
Meloni entra nella top 5 dei governi più longevi d’Italia
Con i suoi 886 giorni il governo di Giorgia Meloni supera in durata quello (il primo) di Romano Prodi e mira ora a sorpassare l'esecutivo di Matteo Renzi. A celebrare il sorpasso è stata, con un video sui social, la stessa Meloni che tuttavia ha esplicitato la propria ambizione: quella di essere la prima Presidente del Consiglio a concludere la legislatura con lo stesso Governo, cosa non riuscita nemmeno a Silvio Berlusconi, che tuttora detiene il primato dell'esecutivo più longevo: il secondo Governo del Cavaliere, con i suoi 1.409 giorni (dall'11 giugno 2001 al 23 aprile 2005) resta ancora saldamente alla guida della classifica dei più longevi della Repubblica, anche se fu tormentato da una serie di cambi nei ministeri più importanti (agli Esteri, all'Interno, al Tesoro, ecc.).
I dissidi interni alla maggioranza portarono non a un semplice rimpasto bensì a un nuovo incarico da parte del presidente Ciampi e a una nuova foto di fiducia: il governo Berlusconi III concluse la legislatura. Dunque, con lo stesso premier ma non con lo stesso Governo. A Berlusconi spetta anche la seconda piazza dei governi duraturi, con il suo quarto incarico che iniziò l'8 maggio 2008 per concludersi il 12 novembre 2011, ovvero dopo 1.283 giorni. Il “generale spread”, come si disse allora, spinse Berlusconi a dimettersi pur avendo la maggioranza in Parlamento, per lasciare il posto a Mario Monti. Sopra i mille giorni, al terzo posto, si attesta il primo governo Craxi che durò dal 4 agosto 1983 al 27 giugno 1986. Sostenuto dalla maggioranza del Pentapartito (Dc, Psi, Psdi, Pri e Pli) durò 1.058 giorni. Anch'esso fu seguito da un bis dello stesso Craxi (dal 1° agosto 1986 al 17 aprile 1987) che dopo otto mesi cedette il passo a un esecutivo di brevissima durata, il Fanfani VI, un governo istituzionale sostenuto dalla Dc, che guidò il Paese ad elezioni anticipate dopo 3 mesi e 11 giorni.
È di Amintore Fanfani, invece, il record assoluto del governo più breve: alla sua prima esperienza a Palazzo Chigi rimase infatti in carica dal 19 gennaio al 10 febbraio 1954, per un totale di appena 22 giorni, essendosi visto rifiutare la fiducia dal Parlamento. Al quarto posto, con 1.019 giorni, si colloca il governo di Matteo Renzi, installatosi non a inizio legislatura, bensì subentrando a quello di Enrico Letta il 22 febbraio 2014, per cedere a sua volta la campanella a Paolo Gentiloni il 12 dicembre 2016. Renzi cadde non per dissidi della sua maggioranza, ma per via della sconfitta al referendum sulla riforma costituzionale. Il Governo superato in termini di durata da Giorgia Meloni è il Prodi I, che durò 874 giorni, dal 18 maggio del 1996 al 9 ottobre del 1998: fu il primo esecutivo a cadere con un voto di sfiducia del Parlamento dopo che il Prc di Fausto Bertinotti era uscito dalla maggioranza.
I sondaggi della settimana
Negli ultimi sondaggi realizzati dall’Istituto SWG il 24 marzo, tra i partiti del centrodestra arretra Fratelli d’Italia che perde uno 0,3% e scende al 29,7%. In seconda battuta anche il Partito Democratico perde consensi, lasciando 0,3 punti e scendendo al 22,4%. Terza forza nazionale il Movimento 5 Stelle che rimane stabile al 12,2%. Salgono Forza Italia, che guadagna lo 0,2% (9,3%) e la Lega, che avanza di 0,4 punti (8,4%). Nella galassia delle opposizioni, AVS perdo lo 0,1% attestandosi al 6.2%, mentre i centristi sono rilevati singolarmente con Azione (3,6%), IV (2,4%) e +Europa (1,8%). Chiudono il quadro settimanale le rilevazioni con Noi Moderati all’1,0%.
La stima di voto per la coalizione di centrodestra (FdI, Lega, FI e NM) torna a crescere rispetto alla scorsa settimana, trainata dalle forze minori, salendo al 48,4%. Il centrosinistra (Pd, All. Verdi Sinistra) registra il 28,6% delle preferenze perdendo 0,4 punti; fuori da ogni alleanza, il M5S rimane stabile all’12,2%. A chiudere il Centro che torna a crescere, guadagnando lo 0,2%, salendo al 7,8%.
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