Duello fra Conte e la Commissione Ue sui conti pubblici
È duello totale tra Italia e Ue sui conti pubblici. La trattativa con l'Europa parte in salita, con il Governo molto preoccupato per i futuri passi della procedura d’infrazione e fermo nel contestare le stime della Commissione che ritiene lontane dalla realtà. L'Italia non arriva a Bruxelles a mani vuote, precisa il premier Giuseppe Conte appena atterrato nella capitale belga per il vertice europeo, ma poi, dopo i colloqui avuti a margine del Consiglio, esprime timore sull'esito del negoziato e cerca un ultimo contatto con Merkel per cercare una via d'uscita. Sul tavolo i leader Ue non hanno solo il complicato risiko di nomine delle nuove istituzioni ma anche la lettera con cui Conte assicura che l'Italia non intende “sottrarsi ai vincoli europei” e con cui annuncia che grazie a più entrate e meno spese raggiungerà gli obiettivi di deficit.
Il premier porta alla Ue un tesoretto di almeno cinque miliardi, capace di frenare la corsa del deficit 2019 al 2,1%, invece del 2,5% previsto dalla Commissione Ue. Senza un compromesso politico, però, potrebbero non bastare perché Bruxelles chiede un aggiustamento più ampio. Conte gioca anche su un altro terreno, più politico, mettendo in discussione le regole che considera sbagliate e controproducenti, “come dimostra il caso della Grecia”. Ma Bruxelles non è disposta a seguire l'Italia in questa partita: “Lavoriamo per evitare la procedura, ma non lo si fa attraverso commenti sulle regole”, ha avvertito il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici.
Il premier spiega che nella trattativa con l'Ue c’è “un binario tecnico e un binario politico”. Ed è su questo secondo punto che critica “un patto di stabilità e crescita che è molta stabilità e poca crescita”, proponendo di “invertire” la situazione. La sua lettera “contiene un messaggio politico chiaro: Non vuole dire che non rispettiamo le regole ma chiede di rivederle, tanto che per l'Italia il candidato ideale alla presidenza della Commissione è “quello che si predispone a rivedere un sistema controproducente” che ha contribuito a “allontanare le Istituzioni europee dalle tante periferie”.
Per ora però, chiarisce Moscovici, non bisogna perdere tempo a parlare di modifiche a norme concordate da tutti, ma occorre lavorare per evitare la procedura per debito eccessivo. L'iter è partito e va possibilmente interrotto prima del 2 luglio, giorno in cui la Commissione potrebbe adottare la raccomandazione di apertura della procedura che poi l'Ecofin dell'8-9 luglio dovrà approvare. I Commissari e i tecnici sono al lavoro sulla lettera e aspettano che mercoledì il Cdm approvi l'assestamento di bilancio.
Non conterrà tagli di nuove risorse, assicura Conte, ma certifica “in un documento ufficiale” risparmi e maggiori entrate, rendendo definitivo il congelamento già programmato dei 2 miliardi che facevano già parte dell'accordo di dicembre. Ma questo tesoretto potrebbe non bastare: i due miliardi congelati sono già stati incorporati nelle previsioni Ue, quindi vanno esclusi. Ne restano solo tre e, sulla carta, Bruxelles chiede un aggiustamento dello 0,4% del Pil per il 2018 e dello 0,5% per il 2019: solo per sanare il 2018, quindi, servirebbero oltre sei miliardi.
Al Consiglio Europeo ancora nessuno accordo sulle nomine
Niente accordo al Consiglio europeo sulle nomine ai vertici delle Ue. I 28 non hanno trovato una maggioranza su un candidato per il pacchetto di nomi che dovrà guidare le Istituzioni nella prossima legislatura, a cominciare dalla presidenza della Commissione europea, e hanno rinviato la decisione a un vertice straordinario convocato per il 30 giugno. Nel frattempo, ha detto il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk, le trattative andranno avanti per cercare un accordo che rispecchi la “diversità dell'Unione europea”. I Governi, per adesso, mettono definitivamente una pietra tombale sull'ipotesi che il prossimo presidente della Commissione possa essere uno degli Spitzenkandidaten, ovvero uno dei candidati di punta delle principali forze politiche a Strasburgo, e danno mandato allo stesso Tusk di negoziare un accordo tra i gruppi parlamentari.
Dopo una lunga giornata di contatti e di trattative in cui si sono inseguite diverse ipotesi, compreso quella della presidente croata Kolinda Grabar Kitarovic come soluzione di compromesso per la presidenza della Commissione, un accordo resta lontano. L'obiettivo è quello di trovare delle personalità che riflettano criteri politici, geografici e di genere: esclusi i tre candidati di punta continuano a farsi i nomi del francese Michel Barnier per la Commissione, dei liberali Mark Rutte e Charles Michel per il Consiglio, della tedesca dei Verdi Ska Keller per la presidenza del Parlamento. Ma la trattativa è talmente intricata che potrebbe essere del tutto ribaltata nei prossimi giorni. Quanto alla Bce i nomi in lizza rimangono quelli del tedesco Jens Weidmann, dei finlandesi Olli Rehn e Erkki Liikanen, e dei francesi Francois Villeroy de Galhau e Benoît Coeuré.
Di Maio frena su Autonomia. Salvini-Zaia avanti tutta
La partita sull’Autonomia continua a scaldare gli animi della politica e rischia di diventare un nuovo casus belli per il Governo. La Lega considera imperativo approvare le intese regionali nella riunione del Consiglio dei ministri della prossima settimana. “Indietro non si torna!”, ha affermato Matteo Salvini incontrando al Viminale Luca Zaia, presidente del Veneto e capofila delle regioni del Nord, in grande agitazione per i rinvii. Ma il vicepremier M5S Luigi Di Maio ha rilanciato la necessità di pensare a tutto il Paese: “L'unico modo corretto per affrontare l'Autonomia è elaborare soluzioni per il Sud”. Il punto, ha chiarito su Facebook il leader M5S, è politico e riguarda la necessità per il Paese “di un grande piano per il Sud”, perché “all'Italia tutto serve tranne un ulteriore divario tra Nord e Sud”.
Intanto la ministra leghista per gli Affari Regionali Erika Stefani ha fatto sapere che è stata ufficialmente fissata, insieme al premier Conte, la road map sulle fasi finali della trattativa. Tutto bene, se non fosse che l'improvvisa accelerazione sui dossier è stata interpretata come una risposta alle polemiche scatenate dall'emendamento al decreto crescita, poi aggiustato, che avrebbe trasferito alle Regioni la gestione del Fondo per lo sviluppo e coesione (Fsc). A spegnere gli entusiasmi ha pensato nel frattempo il ministro per il Sud Barbara Lezzi, che ha informato che la vicenda è oggetto di revisione “insieme ai colleghi della Lega in modo che non ci siano differenze tra Nord e Sud”, nel senso che “stiamo rivedendo l'accordo fatto dal Governo precedente con maggiori principi di equità”; non senza chiarire, al pari di Salvini, che sui Fondi per lo sviluppo e coesione “non c’è stato alcuno scambio con l'Autonomia”.
Intanto la Stefani ha tirato dritto e ha tenuto a far sapere che “l'autonomia è stata ufficialmente incardinata”, sottolineando però che “con il Presidente del Consiglio abbiamo confermato la necessità di un passaggio preliminare, alla firma, del testo delle intese nelle Commissioni parlamentari”. Naturalmente i territori continuano a premere sull'acceleratore, come ha fatto il nuovo governatore del Piemonte l'azzurro Alberto Cirio, il quale, in Conferenza delle Regioni, ha sottolineato che anche il Piemonte sull'Autonomia vuole stare in prima fila.
A remare nella stessa direzione, come del resto fa ormai da anni, è il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, il quale insieme alla Lombardia e all'Emilia Romagna dovrebbe tagliare per primo il traguardo sull'Autonomia. Va per le spicce il presidente della Regione Lombardia, anche lui leghista, Attilio Fontana: “Abbiamo finito il lavoro, abbiamo fatto tutto quello che c'era da fare adesso è soltanto una scelta politica, o il governo dice di sì o dice di no, il resto sono sciocchezze”.
L’Aula della Camera
Dopo che nella giornata di ieri il Ministro per i rapporti con il Parlamento Riccardo Fraccaro ha posto la questione di fiducia sul decreto crescita, l’aula della Camera tornare a riunirsi alle 14.15 per le dichiarazioni di voto e alle 15.40 per il voto di fiducia. Successivamente l’Assemblea di Montecitorio esaminerà gli ordini del giorno, svolgerà le dichiarazioni di voto e infine procederà al voto finale. Una volta approvato il decreto passerà all’esame del Senato che dovrà varare il provvedimento entro il 29 giugno.