Draghi rassicura, ma la giravolta di Putin sul gas preoccupa
“Tutti desideriamo uno spiraglio di luce, ma tutti dobbiamo stare con i piedi per terra”. Anche se le parti sembrano “un po' avvicinate” i tempi non sono “ancora maturi” per una soluzione del conflitto in Ucraina, e Mario Draghi non smette di predicare cautela. C’è ancora “scetticismo” sulle reali intenzioni di Mosca, dice davanti alla stampa estera mentre riferisce della sua telefonata con Vladimir Putin e della richiesta arrivata da Mosca, così come da Kiev a inizio settimana, che l'Italia faccia da garante per facilitare il processo di pace. Lo scetticismo non può che aumentare davanti alla nuova giravolta di Mosca, che a Draghi, e anche a Scholz, aveva garantito le forniture di gas e i pagamenti in euro salvo poi il giorno dopo firmare un decreto che fa scattare da subito i pagamenti in rubli, pena lo stop alle forniture. La firma del decreto e le nuove affermazioni di Putin fanno agitare le cancellerie europee: la Commissione Ue lavora a un’interpretazione degli effetti concreti delle decisioni di Putin e Draghi ne parla al telefono con il cancelliere tedesco Olaf Scholz; palazzo Chigi precisa che Roma si atterrà alla linea stabilita dalla Commissione. Si va verso la bella stagione e gli stoccaggi vanno avanti già a ritmo sostenuto; eventuali interruzioni, come assicura anche il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, non sarebbero un problema nell'immediato ma se uno stop dovesse protrarsi a lungo in autunno ci sarebbero delle difficoltà.
L'Italia comunque procede spedita con il piano per conquistare l'autonomia dal gas russo, rivendica Draghi, ricordando che il Governo ha già stanziato 20 miliardi ed è pronto a fare ulteriori interventi, dopo il varo del Def la prossima settimana. Per ora si mantiene un discreto ottimismo, anche perché gli atti di Putin non appaiono del tutto in contraddizione con le parole dette al telefono. Il leader russo, riferisce Draghi, ha promesso che le aziende europee avranno delle concessioni e potranno continuare a pagare in euro. La situazione, ripete più volte il premier, è “in evoluzione” e bisogna stare il più possibile “ai fatti” che finora non hanno mostrato da parte di Mosca un vero “desiderio di pace”. La Cina “potrebbe diventare protagonista” e il vertice con la Ue servirà anche a sondarne le intenzioni; in attesa di vedere se Pechino risponderà alle aspettative occidentali, un ruolo “importantissimo” è quello che sta esercitando la Turchia, sottolinea il premier poco prima dell'annuncio da parte del presidente Recep Tayyp Erdogan di un tentativo di organizzare un faccia a faccia tra il presidente russo e Volodymyr Zelensky.
Ancora polemiche dopo l’accordo sull’aumento delle spese militari
L'accordo sull'aumento delle spese militari sembra raggiunto. La tensione tra il Governo e il Movimento 5 Stelle, aggravata dalle preoccupazioni del Pd che intravedevano una crisi dell'esecutivo, si allenta nel giorno in cui il presidente del Consiglio Mario Draghiannuncia che nel Def “non è previsto che ci sia nessuna indicazione specifica di spese militari”. Il premier lo dice durante la conferenza con la stampa estera a Roma, di fatto confermando il raggiungimento di un punto di caduta e cioè quello di spalmare fino al 2028 l'aumento delle spese militari fino al 2% del Pil. Sono le ricostruzioni sul raggiungimento a non coincidere pienamente: per Draghi “Ci siamo visti con il presidente Conte il quale chiedeva un allargamento, un allungamento dell'obiettivo al 2030. Io ho detto no, si fa quel che il ministro della Difesa Guerini ha proposto e deciso per il 2028. Successivamente è uscito un comunicato che diceva che quella era proprio la richiesta di coloro che volevano ridurre le spese militari, quindi non c'è disaccordo”. La lettura del M5S è diversa: “Riteniamo un bene che ci sia ora convergenza sulle nostre posizioni, ma narrazioni di comodo non possono distorcere la realtà”, si legge in una nota, in cui si sottolinea “il dietrofront del Governo, del ministro Guerini e del premier Draghi, a fronte della nostra determinazione”.
Giuseppe Conte intanto rilancia: “Prima ci danno degli irresponsabili, poi ci danno ragione”, perché “finora solo il M5S aveva detto pubblicamente di andare oltre il termine del 2024, anche rimandando tutto al 2028 o al 2030. Ora, finalmente, le parole del ministro Guerini e quelle del presidente Draghi rappresentano un'apertura di buon senso alle nostre posizioni”. L'ex premier riserva stoccate anche all'alleato Pd: “Pretendo rispetto. Non posso accettare accuse di irresponsabilità perché non funziona così: non siamo la succursale di un'altra forza politica”. Con il segretario Enrico Letta “ci siamo sentiti ieri e ci continueremo a sentire” ma “c'è un aspetto politico: dobbiamo rispettarci a vicenda”, aggiunge Conte, che nel pomeriggio sale al Quirinale per un colloquio durato oltre un'ora con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “Un colloquio informativo, come avvengono usualmente tra il capo dello Stato e i capi di partito”, fanno sapere dal Colle, ma che probabilmente è servito a confermare la volontà del M5S ad arrivare a fine legislatura.
Tuttavia le polemiche non sembrano destinate a placarsi. In serata il ministro della Difesa Lorenzo Guerini spiega che quella sulle spese militari “non è stata una mediazione ma la conferma di un lavoro già iniziato, con l'obiettivo della crescita graduale delle spese in ambito difesa che sono iniziate nel 2019 con il governo Conte e proseguite con il governo Draghi”. Pronta arriva la replica dal M5S: “Stasera Guerini sostiene che la data del 2028 per raggiungere il 2% del Pil destinato alle spese militari non è stata frutto di una mediazione. Ieri invece il Pd ha sostenuto che si è trattato di una grande mediazione portata avanti dal partito di Letta. Un cortocircuito imbarazzante. Ormai si dice tutto e il contrario di tutto pur di non riconoscere il risultato della battaglia di Giuseppe Conte”.
Dopo le polemiche il Senato ha approvato definitivamente il decreto Ucraina
Guardando i risultati del voto di fiducia al Senato, la maggioranza sembrerebbe essersi ricompattata dopo le forti fibrillazioni sull'aumento delle spese militari, così come sembrerebbero essere rientrati i distinguo interni ai partiti ed in particolare nel Movimento 5 Stelle. Nel partito guidato da Giuseppe Conte alla fine si registrano solo 3 assenze non giustificate (i senatori Alberto Airola, Daniele Pesco e Gianluca Ferrara), mentre sono 8 i pentastellati autorizzati a non partecipare al voto. Già ampiamente annunciato il voto contrario del presidente della commissione Esteri Vito Petrocelli che verrà sanzionato e che ancora potrebbe essere espulso. Sono invece 5 le assenze ingiustificate tra le file di Lega e M5S, nessuna per Pd e Italia Viva. I votanti sono 249.
In occasione del primo voto sul decreto alla Camera, lo scorso 17 febbraio, le assenze furono ben più numerose: solo 397 i deputati presenti, 392 i votanti, in missione 78. Dunque, se ci si limitasse all'analisi dell'esito del voto di fiducia a palazzo Madama (214 voti favorevoli, 35 contrari) e considerando i 25 non partecipanti al voto tra i senatori non in missione o congedo, sembrerebbe che la maggioranza di Governo si sia ricompattata, ma se l’analisi si sposta sul piano politico appare evidente che le tensioni di questi giorni sono destinate a essere ricordate ed è facile immaginare che siano destinate a intensificarsi più ci si avvinerà alla fine della legislatura.
Il 12 si voterà per i 5 referendum e per le elezioni amministrative
Il 12 giugno sarà election day: si voterà infatti per i cinque quesiti referendari sulla giustizia proposti da Radicali e Lega e ammessi dalla Consulta, nonché per il primo turno delle amministrative, mentre il 26 giugno sono previsti i ballottaggi. Le elezioni amministrative, che coinvolgeranno 8,5 milioni di elettori, riguarderanno circa 950 Comuni tra cui 4 capoluoghi di regione (Genova, Palermo, Catanzaro e L'Aquila) e 22 capoluoghi di provincia (Alessandria, Asti, Barletta, Belluno, Como, Cuneo, Frosinone, Gorizia, La Spezia, Lodi, Lucca, Messina, Monza, Oristano, Padova, Parma, Piacenza, Pistoia, Rieti, Taranto, Verona e Viterbo). Per i Comuni della Valle d'Aosta le urne sono anticipate al 15 maggio (ballottaggio il 29), per quelli del Trentino Alto Adige al 29 maggio (ballottaggio il 12 giugno). L'ok definitivo è arrivato dal Consiglio dei ministri e sarà seguito nei prossimi giorni da un decreto del ministero dell'Interno per le amministrative ed uno del presidente della Repubblica per i Referendum.
I quesiti saranno cinque: 1) si chiede di abrogare la parte della Legge Severino che prevede l'incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza automatica per parlamentari, membri del Governo, consiglieri regionali, sindaci e amministratori locali nel caso di condanna per reati gravi; 2) lo stop delle “porte girevoli” per non permettere più il cambio di funzioni tra giudici e pm e viceversa nella carriera di un magistrato; 3) via l'obbligo per un magistrato di raccogliere da 25 a 50 firme per presentare la propria candidatura al Csm; 4) togliere la “reiterazione del reato” dai motivi per cui i giudici possono disporre la custodia cautelare in carcere o i domiciliari per una persona durante le indagini e quindi prima del processo; 5) il quesito chiede che gli avvocati parte di Consigli giudiziari possano votare in merito alla valutazione dell'operato dei magistrati e della loro professionalità.
Sulla decisione però si dividono i promotori di quest'ultima consultazione: i Radicali protestano per la data scelta, mentre Matteo Salvini si dice invece soddisfatto “perché hanno ascoltato la richiesta della Lega. L'election day comporta un risparmio di tempo e soldi, almeno 200 milioni di euro che chiederemo vengano usati per tagliare ancora i costi di bollette e benzina”.