L’irlandese Donohoe è il presidente dell’Eurogruppo

Il ministro delle finanze irlandese Paschal Donohoe batte a sorpresa la superfavorita ministra spagnola Nadia Calvino e diventa presidente dell'Eurogruppo al posto del socialista portoghese Mario Centeno. 45 anni, laureato in Scienze politiche ed economiche all’università di Dublino, prima di diventare ministro delle Finanze del governo irlandese Donohoe aveva ricoperto l'incarico di ministro dei trasporti, del turismo e dello sport e degli affari europei. L'elezione dell'irlandese è un colpo di scena inaspettato rispetto alle attese della vigilia. Calvino infatti aveva il consenso dei quattro principali paesi della zona euro, Germania, Francia, Italia e Spagna, che rappresentano circa l'80% del Pil dell'area euro ma il sostegno del fronte dei Grandi non è stato sufficiente a farle ottenere la vittoria. Donohoe aveva l'appoggio esplicito solo dell'Austria, ma anche quello politico del Ppe, il che fa pensare che i governi di centrodestra (escluso la Grecia che avrebbe invece dirottato il suo voto sulla spagnola) abbiano votato per lui. Il voto è segreto e non c’è nessuna conferma ufficiale, ma la vittoria dell'irlandese significa che Donohoe ha raggiunto i dieci voti necessari per vincere con il sostegno dei governi a guida Popolare (Slovacchia, Slovenia, Lettonia o Cipro) oltre che dell'Olanda, che già aveva fatto filtrare la sua preferenza. Probabile che anche Belgio e Lussemburgo abbiano alla fine dirottato su di lui le loro preferenze. 

In ogni caso, è evidente che sul piano politico l'elezione dell'irlandese favorisce i paesi del Nord sul Recovery Fund rispetto a una presidenza a guida spagnola. La partita a dispetto dell'offensiva diplomatica dei leader europei sul primo ministro olandese Mark Rutte (oggi vedrà Giuseppe Conte) continua a essere complicata, tanto da far pensare che il vertice europeo del 17 e 18 luglio potrebbe non essere decisivo per arrivare a un'intesa. Donohoe, strenuo sostenitore della tassazione agevolata alle imprese in vigore in Irlanda che ha sollevato non poche polemiche all'interno dell'Unione, è anche contrario all'introduzione di una web tax sui colossi del digitale. “Sono profondamente onorato, non vedo l'ora di lavorare con tutti i miei colleghi per garantire una ripresa equa e inclusiva per tutti mentre affrontiamo le sfide future con determinazione”, ha scritto l'irlandese che guiderà l'Eurogruppo per i prossimi due anni e mezzo, in un momento cruciale per la storia della zona euro: Donohoe dovrà gestire infatti la più profonda recessione della storia europea e, quando la crisi si sarà attenuata, favorire il ritorno alle regole del Patto di Stabilità e crescita sospese a causa della pandemia.

Il Governo lancia un ultimatum ad Aspi, proposta subito o revoca

Ancora tre giorni: se entro domenica Autostrade non farà al Governo una proposta accettabile e vantaggiosa per lo Stato la revoca della concessione sarà inevitabile. A dettare l'ultimatum ai vertici di Aspi sono i tecnici, in un incontro di circa due ore al Mit, mentre fuori infuria la polemica politica. Restano insomma altre 72 ore per decidere e un Consiglio dei ministri si starebbe ipotizzando già per lunedì perché, come ha spiegato il premier Giuseppe Conte, la situazione è di tale importanza che dovrà essere condivisa da tutto il Governo. Ma l'esito della trattativa non è scontato e nella maggioranza, pur se cresce il fronte pro-revoca, restano profonde divisioni. A quasi due anni dal crollo del Ponte Morandi, mentre Genova si prepara a inaugurare il nuovo ponte di Renzo Piano, ancora non c’è la soluzione del dossier. La holding crolla in Borsa, perdendo in una seduta l'8,2% (a 13,1 euro). Pesa la sentenza della Consulta, che ha giudicato non illegittima l'esclusione di Aspi dalla ricostruzione, ha compattato e reso più forte il 'partito' della revoca e dato maggiori strumenti, anche giuridici, a chi continua a chiedere a gran voce che “i Benetton non gestiscano più le nostre autostrade”, come fa il 5S Stefano Buffagni. Luigi Di Maio è durissimo: “Non dobbiamo avere paura di prendere decisioni nette” dice il ministro degli Esteri. 

La revoca, insiste anche Alessandro Di Battista, non sarebbe una “vendetta” ma un dovere “di autotutela” dello Stato “nell'interesse del Popolo e della sua sicurezza e anche nei confronti dei familiari dei morti” per il crollo del Ponte. Anche tra i Dem, finora sempre cauti, si fa strada l'ipotesi di chiudere il rapporto con la società controllata da Atlantia: “Revocare la concessione ad Aspi non è impossibile” si spinge a dire sottosegretario all'Ambiente Roberto Morassut precisando che “occorre una forte attrezzatura giuridica e formale, perché il rischio contenzioso a danno dello Stato è elevato”. L'alternativa resta una “revisione radicale della concessione”, strada che ancora oggi sarebbe caldeggiata da alcuni ministri Pd ma minoritaria nei gruppi parlamentari; resta la contrarietà alla revoca di Iv. Di certo, però, la decisione della Corte Costituzionale è un'arma che in molti, nella maggioranza e soprattutto nelle file pentastellate, considerano potente. 

Proprio la rinuncia a tutti i ricorsi sarebbe una delle condizioni che il Governo avrebbe messo sul tavolo della trattativa, assieme a un deciso calo delle tariffe, in linea con le indicazioni dell’Autorità dei trasporti, a risorse compensative come penale per il crollo del ponte sul Polcevera (si parla di 3 miliardi) e la tratta autostradale gratis per Genova. Nell'incontro al ministero si sarebbe affrontato anche il tema della manutenzione e dei controlli, al centro del dibattito in questi giorni anche a causa dei disagi per i cantieri in Liguria. Non si sarebbe affrontato, invece, uno dei temi che appare cruciale, cioè quello del controllo della società e di una eventuale uscita dei Benetton. Attualmente Atlantia detiene l'88% di Aspi e si è sempre detta disponibile all'apertura a nuovi partner ma di minoranza. Certo, ora che la Consulta ha rimescolato le carte e spostato gli equilibri di forza, la società dovrà rivalutare la sua offerta, presentata all'inizio di marzo, e giudicata irricevibile e insufficiente dall'esecutivo.  

C’è tensione sulla legge elettorale. Leu e Iv critiche sul Germanicum

Leu e Italia Viva hanno espresso le proprie riserve sul Germanicum, cioè la legge elettorale di impianto proporzionale con sbarramento al 5%, nel corso della seduta della Commissione Affari costituzionali della Camera durante la quale sono state incardinate anche le proposte di Lega e Fdi, che hanno un impianto maggioritario. I relatori Emanuele Fiano e Francesco Forciniti (M5s) hanno ribadito l'intenzione di votare martedì 14 il Germanicum come testo base, suscitando le proteste dell'opposizione per la “fretta” con cui la maggioranza vuole procedere. Fiano e Forciniti hanno illustrato le due proposte di legge della Lega a prima firma di Riccardo Molinari e di Fdi a prima firma di Giorgia Meloni: la prima è un ritorno al Mattarellum, il secondo parte dal taglio dei parlamentari e lo applica alla parte proporzionale del Rosatellum, accentuandone quindi l'impianto maggioritario e rendendolo assai simile al Mattarellum. Anche Forza Italia ha annunciato una propria proposta, un proporzionale con premio di maggioranza. I relatori hanno tuttavia ribadito la tempistica di esame, visto che la capigruppo ha calendarizzato la riforma in Aula il 27 luglio: quindi martedì adozione del Germanicum come testo base e giovedì termine per la presentazione degli emendamenti. 

Un iter sui cui tutto il centrodestra ha manifestato le proprie riserve: “Abbiamo espresso la nostra totale contrarietà” ha spiegato Igor Iezzi capogruppo della Lega in Commissione. Ma anche due gruppi di maggioranza hanno espresso riserve, vale a dire Leu e Iv; per Federico Fornaro “Noi non abbiamo obiezioni su un impianto proporzionale, ma lo sbarramento del 5% contraddice l'obiettivo di garantire la rappresentanza dopo il taglio del numero dei parlamentari. Ho invitato la maggioranza a riflettere se non sia il caso di adottare il testo Brescia (il cosiddetto Germanicum) come testo base”. Marco Di Maio di Iv ha riferito di aver “ribadito la necessità di ricercare una convergenza più ampia, che coinvolga anche le opposizioni. Procedendo in questo modo faremo loro innalzare i toni, rallentando lo stesso iter della riforma e creando difficoltà di dialogo anche su altri provvedimenti. Per noi il sistema migliore è il maggioritario, ma almeno sui tempi dell'esame della riforma non possiamo creare uno strappo con le opposizioni”. 

Salvini paragona la Lega al Pci e scatena un mare di polemiche

Forse Matteo Salvini si è ricordato di quando Massimo D'Alema parlava della Lega Nord come di una “costola della sinistra”, o magari sarà stato un flashback del suo passato tra i comunisti padani, ma di sicuro al Pd non hanno gradito l'uscita del leader del Carroccio su Enrico Berlinguer. Parlando in tv della nuova sede della Lega in via delle Botteghe oscure, di fronte allo storico palazzo del Pci, l'ex ministro scatena l'ira dei democratici, compresi quelli che non hanno mai militato nel partito di Berlinguer: “I valori di una certa sinistra che fu, quella di Berlinguer, adesso sono stati raccolti dalla Lega”. Troppo, per gli eredi di quella storia, ma anche per chi nel Pd viene da altri percorsi. Qualche storico dirigente ex comunista, interpellato al telefono, rifiuta di replicare: “Non voglio commentare idiozie!”. 

La frase di Salvini viene rilanciata in agenzia e in un attimo parte una raffica di reazioni. Per Emanuele Fiano le parole del leader leghista fanno “orrore e pietà”; Andrea Marcucci, che è cresciuto politicamente nel Partito liberale, si dice “indignato”; Roberto Morassut ricorda che Berlinguer significa questione morale e che “la Lega di Salvini sta restituendo con comode rate 49 milioni di euro sottratti agli italiani per i quali è stata condannata”. Michele Bordo, vice-capogruppo Pd alla Camera, prende la cosa molto sul serio, forse temendo che di questi tempi qualcuno possa davvero credere alla tesi della Lega erede di Berlinguer: “Matteo Salvini come al solito dice bugie. La Lega ha semplicemente aperto la sua sede romana in un edificio dove aveva sede il sindacato di destra Ugl ed evoca il Pci. Un'operazione meschina”. Altri preferiscono usare il sarcasmo: per Nicola Fratoianni di Leu è colpa dell'afa, “a Matteo Salvini il caldo dà alla testa”. Anche il leader Pd Nicola Zingaretti invoca l'intervento dei medici: “Mi dicono che Salvini si sia paragonato a Berlinguer. Che pena... chiamate il 118”. 

 



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