Meloni è pronta per l’esordio in UE 

Giorgia Meloni, dopo il Consiglio dei ministri di lunedì e la prima conferenza stampa da premier, si è presa un giorno di riposo per concentrarsi sui dossier più urgenti, tra cui il suo primo provvedimento a sostegno di famiglie e imprese, che dovrebbe andare a mitigare il caro bollette e che andrà in Cdm venerdì. Con la squadra di Governo al completo, Meloni dunque ha tutta l'intenzione di correre spedita e la sua agenda non smentisce questa volontà: oggi il giuramento dei sottosegretari e giovedì la prima uscita fuori dai confini nazionali per un confronto con i vertici europei. A Bruxelles Meloni, nel pomeriggio, vedrà prima la presidente del Parlamento Europeo Roberta Metsola, poi Ursula von der Leyen e infine avrà un faccia a faccia con Charles Michel, presidente del Consiglio Europeo. L'incontro più atteso è quello con la presidente della Commissione Europea: sul tavolo il prezzo dell'energia, la guerra in Ucraina e attuazione PNRR. E non solo: l'Europa attende che l'Italia consegni la Nota di aggiornamento al Def programmatica, la “cornice” della legge di Bilancio 2023, il cui testo sarà varato venerdì. Per quanto riguarda la manovra economica, invece, il testo potrebbe essere licenziato dal Cdm al ritorno della Meloni dal G20 di Bali, quindi intorno al 20 novembre. La prossima settimana, inoltre, dovrebbero costituirsi le Commissioni permanenti di Camera e Senato, un passaggio fondamentale in vista dell'esame della manovra. 

Per ora Meloni è soddisfatta di queste prime settimane di lavoro e in una conversazione con Bruno Vespa non ha dubbi: “A me interessava formare una squadra che funzionasse, un Governo inattaccabile, serio, adeguato, ben calibrato. E credo di esserci riuscita”. La leader di FdI ripercorrendo i giorni precedenti alle consultazioni con il capo dello Stato Sergio Mattarella rivela di non aver “mai temuto davvero di non riuscire a fare un Governo anche se ho preso in considerazione l'ipotesi di presentarmi in Parlamento senza un accordo preventivo con tutti gli alleati”, un riferimento chiaro al braccio di ferro prima con Matteo Salvini e le sue pretese sul Viminale, poi con Silvio Berlusconi. Con il segretario leghista, dopo le prime fibrillazioni, conferma Meloni, “si è stabilito un rapporto nuovo e diverso. Ha capito quel che si poteva e quel che non si poteva fare e mi ha aiutato a cercare soluzioni”. Il rapporto con il Cavaliere è stato vicino alla rottura sia per le sue richieste su Ministri e ministeri sia per le dichiarazioni sull'Ucraina e sulla ritrovata amicizia con Vladimir Putin (senza contare gli appunti a favore di telecamere con tanto di appellativi poco lusinghieri indirizzati a Meloni). Con Berlusconi “c'è stata qualche incomprensione in più, figlia del passaggio di testimone. Quando si vivono certi momenti epocali, è fatale che ci siano delle scosse. Non so quanto sia stato ben consigliato all'inizio” ma il suo discorso sulla fiducia al Senato “è stato bello e importante, e sono stata contenta di applaudirlo”. 

I partiti della maggioranza sono al lavoro sulle presidenze delle Commissioni

Completata la squadra di Governo con la nomina dei viceministri e dei sottosegretari (Leggi lo speciale di Nomos), i riflettori si accendono ora sul Parlamento ed in particolare sulle presidenze delle Commissioni permanenti di Camera e Senato oltre alle bicamerali, un gioco di incastri che interessa maggioranza ed opposizione. Le trattative si preannunciano serratissime e per completare tutte le caselle i partiti hanno a disposizione circa una decina di giorni. La dead line ufficiale sarà dettata dalle riunioni delle conferenze dei capigruppo di Camera e Senato convocate per giovedì; in quella sede si ufficializzerà la data di convocazione di tutte le Commissioni chiamate, come primo atto, a eleggere il loro presidente. Con ogni probabilità, le riunioni inizieranno la settimana prossima: la partita più complessa si gioca ovviamente a palazzo Madama dove i numeri, complice anche la squadra di senatori entrata nel Governo, sono un po’ risicati. La fetta più grossa spetta ovviamente a Fratelli d'Italia, che dovrà anche riunire i senatori ed eleggere il nuovo presidente (in pole c'è Lucio Malan): al partito della Premier Meloni dovrebbero andare le presidenze di 5 commissioni al Senato e 7 alla Camera, di cui una tra Giustizia e Affari costituzionali e la Bilancio con Nicola Calandrini; in forse la presidenza di una delle due Commissioni Agricoltura calcolando che il ministro è sempre in quota Fdi. Ovviamente tutto dipenderà dall'incastro con gli altri partiti. 

Alla Lega invece dovrebbero andare tre presidenze di Commissione al Senato e quattro alla Camera: a palazzo Madama ci sarebbe Giulia Bongiorno in pole per la Giustizia, e le Attività produttive andrebbero invece Roberto Marti. Alla Camera al partito di Matteo Salvini dovrebbe andare la Commissione Difesa e la presidenza dell’Agricoltura mentre Igor Iezzi potrebbe invece essere il nuovo presidente della Commissione Affari Costituzionali di Montecitorio e Alberto Gusmeroli andrebbe a presiedere la Finanze sempre alla Camera. In alto mare ancora Forza Italia: difficile che il partito di Silvio Berlusconi riesca a spuntarla nella trattativa per ottenere più posti rispetto alla quota fissata per le Commissioni: agli azzurri dovrebbero andare 2 presidenze al Senato e 3 alla Camera tra cui la Bilancio con Roberto Pella, mentre Francesco Battistoni sarebbe in pole per la Commissione Agricoltura. A palazzo Madama invece Stefania Craxi potrebbe essere rieletta presidente della commissione Esteri.

Non meno complicata è la trattativa tra i partiti dell'opposizione per la presidenza commissioni di Vigilanza Rai e il Copasir. Sul piede di guerra resta il Terzo Polo che dopo l'esclusione dagli incarichi negli uffici di presidenza di Camera e Senato punta il dito contro “l'ingordigia” di Pd e Cinque Stelle: “Noi facciamo politica e diciamo: ci sono due opposizioni, una riformista e una populista” attacca Matteo Renzi. Al momento i nomi che circolano sono quelli di Enrico Borghi e Lorenzo Guerini (entrambi Pd) per la guida del Copasir mentre al M5S andrebbe la presidenza della commissione di Vigilanza. A sparigliare le carte però potrebbe essere il centrodestra se ad esempio decidesse di votare un esponente del Terzo Polo: tra i nomi circolati nei giorni scorsi c'era quello di Maria Elena Boschi.

Il centrodestra è preoccupato per i numeri del Senato

Con la nomina di sottosegretari e viceministri, si completa la squadra di Governo a guida Giorgia Meloni, un esecutivo, come più volte rimarcato dalle forze di centrodestra, che si dichiara “forte e coeso” e soprattutto “politico doc”, senza cioè la necessità di stampelle di palazzo per garantirsi un'autosufficienza. Ma se la già travagliata formazione della lista dei Ministri ha visto Palazzo Madama la nomina di 9 senatori del centrodestra a ministri (più il presidente La Russa che per prassi non vota), la seconda tornata di nomine del sottogoverno raddoppia i tagli con altri 10 eletti chiamati a compiti operativi nei vari dicasteri e che renderanno assai difficile una loro costante presenza tra aule e Commissioni (senza contare l'incognita della presenza di Silvio Berlusconi): e lì, anche per il taglio dei parlamentari operato la scorsa legislatura, ogni voto vale oro.

Al momento l'esecutivo può contare su 116 voti di maggioranza ma a questi ne vanno sottratti potenzialmente 20 il che potrebbe portare il centrodestra sotto la soglia dell'autonomia (96), ma pur sempre sopra agli 89/90 delle opposizioni. Ma certo non sono tardate le contromisure, per lo meno a parole: è infatti di pochissimi giorni fa il fermo avvertimento del Ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani che ai colleghi ha scandito: “L'indicazione è stata molto chiara: i sottosegretari devono venire a votare” perché “non sono stati eletti per fare i turisti, a maggior ragione quei sottosegretari che sono attivi nell'ambito dei lavori parlamentari, che vanno e presenziano in Commissione”. 

La rappresentanza femminile nel Governo Meloni è al 29,8%

Completata la squadra del Governo Meloni, la percentuale di rappresentanza femminile, tra ministre, viceministre e sottosegretarie, migliora i pronostici della prima ora: le donne salgono al 29,8% del totale rispetto al 25% di donne alla guida dei ministeri. Il 29,8% è una percentuale però ben lontana (di quasi 15 punti percentuali) da quella del suo predecessore Mario Draghi, che vedeva il 43,9% di donne al governo, la percentuale più alta di sempre. Il primo esecutivo guidato da una donna non va però poi così male, in termini di rappresentanza femminile: si piazza infatti al terzo posto, dopo il primato di Draghi e il secondo posto del Conte II. Il governo guidato da Giorgia Meloni è composto al momento da 67 persone: 20 donne e 47 uomini; quello dell'ex presidente della Bce vedeva invece 37 uomini e 29 donne. Il calcolo è stato realizzato considerando appunto il totale della compagine di Governo, premier incluso assieme a chiunque abbia ricoperto, anche non per l'intera durata del mandato, i ruoli di sottosegretario, ministro e viceministro, ed escluse quelle che da sottosegretario/a siano state promosse nello stesso esecutivo a viceministro/a e gli interim ai premier.

Gli esecutivi di centrosinistra, dal 2013 al 2018, vedono percentuali ancora inferiori di donne sul totale: il 26,6% quando era presidente del Consiglio Enrico Letta, il 25,3% con Matteo Renzi e il 25,8% con Paolo Gentiloni. Il primo governo guidato da Giuseppe Conte, nel 2018, registra un tonfo della percentuale di donne con un totale che non arriva a toccare nemmeno quota 17%. Se prendiamo in considerazione i soli ministeri, il governo Meloni fa peggio anche del Conte I (che aveva il 28,5% di ministre, a fronte del 25% di oggi), ma se si prende in considerazione il sottogoverno, la compagine guidata dalla presidente di Fdi vede il 34,3% di sottosegretarie sul totale e il 25% di viceministre. Con Draghi le sottosegretarie erano il 47,2%, nel Conte II il 40% e nel governo gialloverde solo il 13%; anche qui Meloni ha più donne dei sottogoverni di centrosinistra (27,7% sottosegretarie e 14,2% di viceministre con Gentiloni, rispettivamente 24% e 8% con Renzi, e 25% e 20% per Enrico Letta). Ancora prima, con Mario Monti, le sottosegretarie erano solo l'11% del totale, viceministre non pervenute. 

Il centrosinistra critica la norma anti rave. Scontro Letta-Salvini

All'indomani del decreto sui rave varato dal governo di Giorgia Meloni, l'opposizione insorge ed è scontro tra Enrico Letta e Matteo Salvini: “Il Governo ritiri il primo comma dell'art 434 bis di riforma del Codice Penale. È un gravissimo errore. I rave non c'entrano nulla con una norma simile. È la libertà dei cittadini che così viene messa in discussione”, scrive sui social il leader Dem. Ancora dal Pd, il coordinatore dei sindaci Matteo Ricci fa notare come oggi, con Meloni, anche gli studenti che occupano un liceo sarebbero condannati a 6 anni di carcere. Il segretario del Carroccio passa al contrattacco: “Il Pd ormai è in confusione totale. Il Pd difende illegalità e raveparty abusivi chiedendo al Governo di cambiare idea. No! Indietro non si torna, le leggi finalmente si rispettano”. Non è d'accordo il leader di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, secondo il quale “si è usato il pretesto del contrasto ai rave per inserire pene pesantissime che potranno essere utilizzate in ben altri contesti: cortei dei lavoratori, mobilitazioni studentesche o proteste dei movimenti come quelle che in questi mesi si sono sviluppate a Piombino”. Di “norma liberticida e fascista alla Putin” parla invece Angelo Bonelli. Nel mirino delle opposizioni, dunque, il comma 1 del nuovo articolo 434-bis del codice penale, quello che punisce “l'invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l'ordine pubblico o l'incolumità pubblica o la salute pubblica”.

Tagliente il leader di Azione Carlo Calenda, che accusa via Twitter il presidente Meloni di aver promosso “una norma a cavolo per fare la dura”. Sono, però, fonti del Viminale a inserirsi nella contesa sulla misura firmata dal ministro Matteo Piantedosi: “La norma anti-rave illegali interessa una fattispecie tassativa che riguarda la condotta di invasione arbitraria di gruppi numerosi tali da configurare un pericolo per la salute e l'incolumità pubbliche. Una norma che non lede in alcun modo il diritto di espressione e la libertà di manifestazione sanciti dalla Costituzione e difesi dalle Istituzioni”. La “precipitosa e inusuale precisazione del Viminale conferma il pasticcio”, rimarca il numero uno del Nazareno: per Letta, insomma, la norma va ritirata. E non la manda a dire neanche Giuseppe Conte: “Ci aspettavamo come primo atto del Governo un intervento per il caro-bollette e per il caro-prezzi. Nulla di tutto questo. Abbiamo invece un’esibizione muscolare di un Governo impregnato di un’ideologia iniquamente e soverchiamente repressiva”.



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