Meloni vede Cingolani e sente il presidente ucraino Zelensky
Per Giorgia Meloni “la questione energetica la più preoccupante”; si spiegano così anche i continui contatti con Palazzo Chigi e in particolare con Roberto Cingolani, martedì alla Camera per incontrare la presidente di Fdi e fare il punto sulla discussione in sede europea per contenere il prezzo dell'energia. “Io mi sto impegnando fortemente per passare al futuro Governo tutto quello che noi stiamo facendo, anche perché su questa cosa ci deve essere una continuità dell'Italia a livello internazionale, nella speranza di non perdere nemmeno un giorno nel passaggio. E devo dire che ho trovato anche molta ricettività dall'altra parte” dice il Ministro, “imposta dai tempi ristretti con cui bisogna fare i conti per fronteggiare il caro bollette”. Non a caso da giorni la presidente dei Conservatori europei afferma che bisogna fare presto. Anche per questo è impegnata in quella che ha definito “una transizione ordinata” con l'esecutivo uscente al lavoro da mesi a Bruxelles sulla complessa trattativa legata al price cap europeo. Una misura che se anche venisse applicata comunque non produrrebbe effetti immediati. Ecco perché all'orizzonte si staglia un quarto decreto Aiuti. La Meloni ha parlato con Volodymyr Zelensky che si è congratulato per la vittoria alle elezioni e si è detto certo di poter contare su una proficua collaborazione con il prossimo Governo italiano.
Il centrodestra lavora sulle presidenze delle Camere. La Meloni: facciamo presto
A sette giorni dall’inizio della XIX legislatura, la missione di Giorgia Meloni si concentra sulla prima vera deadline l'elezione dei presidenti delle Camere. La leader di Fratelli d'Italia continua a tessere la tela per la squadra che spera le venga affidata presto. In attesa dell'incarico, filtrano contatti tra Meloni e il Quirinale. A conferma della triangolazione che sarebbe in corso, anche con Palazzo Chigi, per definire l'esecutivo migliore. Nel frattempo, la premier in pectore passa l'ennesima giornata chiusa nei suoi uffici alla Camera. Sul tavolo, i dossier economici più delicati che devono essere pronti quanto prima. Poi solito via vai di fedelissimi con cui la leader prova a stringere sui nomi. Tra le voci che corrono più insistenti, nelle ultime ore si rafforza l'opzione di affidare a Ignazio La Russa la presidenza del Senato e al leghista Giancarlo Giorgetti quella di Montecitorio. Sulla carta, il tandem FdI-Lega potrebbe risolvere alcuni nodi politici. Un ruolo che, se assegnato a Giorgetti, avrebbe un doppio vantaggio. Da un lato, se eletto alla Camera non sarebbe più in corsa per un ministero. Una scelta che caldeggia pure FdI, così da smarcarsi dall'impronta draghiana. In più la soluzione Montecitorio non dispiacerebbe nemmeno alla Lega, che allontanerebbe dall’esecutivo un non salviniano. In ogni caso, il risiko delle Camere si intreccia con le scelte di capigruppo e presidenti delle commissioni, oltre che ministri e sottosegretari. (Speciale Nomos – I possibili Ministri del Governo Meloni)
Bonomi attacca: serve serietà, no a flat tax e prepensionamenti
Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi al suo primo intervento dopo il voto è categorico sulle priorità da affrontare e boccia le ipotesi di “immaginifiche flat tax e misure di prepensionamento”. Dalla platea dell'assemblea degli industriali di Varese il leader di Via dell’Astronomia mette subito in chiaro che Confindustria non “tifa né per una parte e nemmeno per l'altra” ed esorta la politica a formare il nuovo Governo nei “tempi più rapidi possibili, con Ministri autorevoli, competenti e inappuntabili”. Fatta questa premessa Bonomi parla dei problemi: con la situazione economica attuale “nessuno può fare previsioni realistiche” sulla crescita e sugli effetti del rialzo dei prezzi. È per questo motivo che serve da parte del nuovo esecutivo una “vasta convergenza sulle scelte da fare, anche con le forze di opposizione, per affrontare le due grandi emergenze che sono l'energia e la finanza pubblica”. Il prossimo governo deve avere ben chiaro che si deve salvare il “sistema industriale italiano dalla crisi energetica” e questo perché migliaia di aziende “sono a rischio, insieme a centinaia di migliaia” di lavoratori. Tutte le risorse disponibili, escluse quelle per i “veri poveri, vanno concentrate lì, perché senza industria non c’è l'Italia”.
Meloni attacca Draghi sui ritardi del Pnrr
Si consuma sul Pnrr lo scontro a distanza tra Giorgia Meloni e Mario Draghi. Dopo che finora, dalla guerra in Ucraina alla postura da mantenere in Ue nella battaglia sul tetto al prezzo del gas, tra i due si era registrata una certa sinergia, si è arrivati allo scontro, sebbene a distanza. La leader di Fdi, che già nei giorni scorsi aveva negato qualsiasi inciucio, prova a smarcarsi dalle accuse di essere troppo vicina a Draghi e piazza il suo affondo contro uno dei simboli dell'esecutivo delle larghe intese, quel piano da 200 miliardi nato contro la pandemia che ora, è la linea, non basta così com’è per arginare la nuova crisi energetica. Andrà “attualizzato”, questo è l'obiettivo di Fdi, per renderlo più vicino alle esigenze di oggi che sono quelle della diversificazione delle fonti di energia e della protezione di famiglie e imprese dai rincari delle bollette. Intanto ci sono “ritardi evidenti e difficili da recuperare” attacca Meloni. L'uscita arriva nel giorno in cui il premier uscente ha riunito tutti i Ministri per fare un punto sull'attuazione del Piano. “Nessun ritardo” dice a chiare lettere Draghi rispondendo indirettamente alla leader di Fdi in cabina di regia, convocata per inviare, tra gli ultimi atti del suo Governo, la relazione al Parlamento sul Pnrr. Sulla manovra, i tempi stringono, Draghi e Franco potrebbero presentare già la prossima settimana il Documento programmatico di Bilancio, rispettando la scadenza Ue di metà ottobre ma indicando solo le spese indifferibili, in attesa che si compia la transizione e che il prossimo Governo compia le scelte di politica economica.
Letta detta i tempi del congresso. Il Pd non si scioglierà né cambierà il simbolo
Il Pd non si scioglierà e il simbolo come il nome difficilmente saranno cambiati. Il nuovo segretario arriverà a marzo e verrà scelto con un percorso che si chiuderà con le primarie. Alla direzione nazionale, Enrico Letta ha tracciato la strada del congresso costituente per il nuovo Pd. Il dibattito è poi durato una decina d’ore con un'approvazione quasi unanime delle tappe indicate dal segretario. Il segretario dem non ha dato indicazioni su chi dovrà prendere il suo posto, ma qualche indizio lo ha seminato: “Il nostro partito metta in campo una classe dirigente più giovane, in grado di sfidare il governo di Giorgia Meloni”. E poi: il congresso deve avere “tempi giusti, non deve essere un X Factor”. “Vorrei che il nuovo gruppo dirigente fosse in campo con l'inizio della nuova primavera”. Con un passaggio che qualcuno ha letto come un “mea culpa”, Letta ha chiesto che il Pd non imbocchi di nuovo la strada battuta col Conte bis e col governo Draghi. “La luna di miele del governo Meloni non sarà infinita. Quando questo governo cadrà io non ci sarò ma dovremo chiedere le elezioni anticipate”.
Gli attacchi più duri a Letta sono stati sul tema della rappresentanza di genere. Il segretario ha riconosciuto che le poche elette sono un “fallimento” del Pd e ha chiesto che vengano confermate due donne come capogruppo. Ma non è bastato. Per Letta, le elezioni sono state vinte da “un'unica forza, FdI, tutte le altre non le hanno vinte o le hanno perse. Un campo ha vinto perché è stato unito e l'altro, nonostante il nostro sforzo, non è stato unito”. Ora chiede al partito di "togliere il doppio petto e fare un’opposizione intransigente e costruttiva, in una logica di collaborazione con le altre opposizioni”. Anche se il rapporto con loro non dovrà condizionare il congresso, che non deve trasformarsi “in un referendum su Conte e Calenda”.
Il centrosinistra è un cantiere. Nodo alleanze per Lazio e Lombardia
A neanche dieci giorni dal voto, nel centrosinistra si ripropone il nodo delle alleanze, a partire dal Lazio, dove i giallorossi governano ancora insieme. A mettere il veto sul campo largo a trazione dem è il terzo polo di Matteo Renzi e Carlo Calenda: “Non faremo un'alleanza con il M5S, sarà il Pd a dover scegliere”, dice il leader di Azione, che intanto prosegue sulla strada della federazione. Per IV e Azione ora la priorità e formare i gruppi unitari (un capogruppo ad Azione e uno a IV) e nel mese di novembre lavorare alla federazione unitaria. L'obiettivo è ambizioso: essere il primo partito alle europee 2024. Francesco Boccia, però, invita alla concretezza: “Nel Lazio con Zingaretti c’è già un'alleanza che coinvolge M5S e partiti del Terzo polo. L'alternativa è un remake della vittoria della destra”. In Lombardia è più semplice dal momento che il M5S ha storicamente ottenuto risultati molto bassi e un loro coinvolgimento in una futura coalizione potrebbe essere meno determinante e sicuramente meno digeribile per un elettorato di riferimento che qualche perplessità l’ha espressa. Insomma, il centrosinistra è un cantiere e la scelta del Pd di fare il Congresso non accorcerà i tempi per trovare quella chiarezza che gli elettori si aspettano.
La lista degli eletti ancora non c’è. Troppe le pluricandidature, specie nel M5S
Alla Camera e al Senato è tutto pronto per l’inizio della XIX legislatura. Lunedì è prevista l'accoglienza dei deputati e i senatori eletti per il disbrigo delle pratiche di elezione. Ma i nomi dei seicento eletti ancora non ci sono, visto che l'ufficio elettorale nazionale sta ancora decidendo quali candidati subentreranno a quelli eletti in più collegi. All'appello mancano ancora 5 deputati e 8 senatori. Il caso più clamoroso è quello della circoscrizione Campania 1, cioè Napoli, dove M5S a suon di pluricandidature, ha meno candidati dei seggi vinti. Il partito di Giuseppe Conte ne ha fatto ricorso con il risultato nella Circoscrizione di Napoli di non aver abbastanza candidati e di doverli recuperare da altre parti. Se si va sul sito del Viminale e si controlla la circoscrizione Campania 1, si vedrà che M5S ha vinto tutti e sette i collegi uninominali e con il suo 41,36% ha eletto sei candidati nel proporzionale. La legge elettorale prevede che si recuperino i candidati degli uninominali della stessa circoscrizione che non hanno vinto, ma il M5S li ha vinti tutti; in subordine si deve pescare nel proporzionale della circoscrizione. Stesso problema al Senato, dove al M5S spettano tre eletti al proporzionale. Insomma, per la lista completa degli eletti c’è ancora da aspettare.
I sondaggi della settimana
Negli ultimi sondaggi del 3 ottobre realizzati dall'Istituto SWG, i primi dopo i risultati elettorali del 25 settembre, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni si conferma il primo partito italiano con il 26,8% e cresce addirittura di quasi un punto, sempre davanti al Partito Democratico (18,1%), ancora in caduta dell’1,0%. Da sottolineare che il distacco tra FdI e la terza forza politica nazionale (Lega) è di 18,6 punti percentuali, valore più alto degli ultimi mesi.
Nell’area delle sinistre, la lista rosso-verde Alleanza Verdi e Sinistra è stimata al 4,0%, in leggera decrescita dagli ultimi sondaggi, mentre il Movimento 5 Stelle continua la sua crescita dalla caduta del Governo Draghi, attestandosi al 18,1%. Nell’area centrista, l’alleanza tra Azione e Italia Viva sale all’8,3%, rimanendo in crescita. Nella coalizione del centrodestra, la Lega perde punti attestandosi all’8,2%, mentre Forza Italia cala al 7,6%. L’alleanza Noi Moderati è in leggera crescita ma non va oltre l’1,2%. Per quanto riguarda gli euroscettici di Italexit di Paragone, questa settimana si registra una leggera crescita che li porta al 2,2%.
La coalizione del centrodestra ha raccolto i frutti nei collegi uninominali, dopo che le forze politiche sono state incentivate a creare delle coalizioni elettorali. Ad oggi, dopo le elezioni, la configurazione “classica” del centrodestra (FdI, Lega, FI e Noi Moderati) viene stimata al 43,8%, in continua tendenza positiva nelle ultime settimane. Il centrosinistra, formato da PD, +Europa e Alleanza Verdi-Sinistra, scende al 25,4%, mentre il Polo di centro, composto da Azione e Italia Viva, raggiunge l’8,3%. Fuori da ogni alleanza il M5S (16,5%).