L’Ue sigla l’accordo sul price cap a 180 euro al Mwh. Meloni: una grande vittoria
Dopo mesi di trattative, gli Stati membri dell’Unione hanno dato finalmente il via libera al tetto al prezzo del gas con il voto a favore della Germania, l'astensione di Olanda e Austria, mentre l'Ungheria ha votato contro. Il meccanismo di correzione del mercato del gas, che sarà operativo dal 15 febbraio, si attiverà con il verificarsi di due condizioni: quando il prezzo sul mese successivo dei futures del Ttf di Amsterdam supera i 180 euro/MWh per tre giorni lavorativi e quando il prezzo Ttf mensile è superiore di 35 euro rispetto a un prezzo di riferimento per il Gnl sui mercati globali per gli stessi tre giorni lavorativi. In realtà quest'ultimo legame con i prezzi del mercato globale si fonda su un “limite di offerta dinamica” che non può essere inferiore ai 145 euro.
Nel caso il prezzo di riferimento per il Gnl sui mercati globali dovesse scendere sotto tale soglia, il limite di offerta dinamica rimarrà alla somma di 145 euro e 35 euro, ovvero 180 euro. Questo per garantire che il tetto non scenda troppo e salvaguardare le forniture. Una volta attivato, il limite di offerta dinamica si applicherà per almeno 20 giorni lavorativi mentre sarà disattivato automaticamente, in qualsiasi momento, se un'emergenza regionale o dell'Unione venisse dichiarata dalla Commissione europea, ad esempio in caso di forniture insufficienti. Plaude al risultato la premier Giorgia Meloni che lo definisce “una piccola grande vittoria”: “Siamo riusciti a spuntarla in Europa sul tetto al pezzo del gas. Una battaglia che davano per spacciata e invece ci siamo riusciti”. Dal Governo ribadiscono il ruolo decisivo delle ultime interlocuzioni della premier anche al vertice della scorsa settimana, ma quella del price cap è una partita iniziata in solitaria dall'ex premier Mario Draghi fin dal Consiglio Europeo di marzo e che sulla strada ha raccolto il consenso di un numero sempre maggiore di Stati membri.
Calderoli accelera sull’autonomia: in Cdm entro fine anno
La legge per l'attuazione dell'autonomia differenziata arriverà in Consiglio dei ministri entro la fine dell'anno, l'iter parlamentare sarà completato entro il 2023, mentre nel 2024 ci potranno già essere i primi trasferimenti di funzioni dallo Stato alle Regioni che ne faranno richiesta. Il ministro per gli Affari regionali Roberto Calderoli fissa le tappe del regionalismo differenziato e rassicura sul sostegno alla riforma da parte di tutte le forze di maggioranza e della premier Giorgia Meloni: “Rispetto al lavoro fatto dagli ultimi Ministri abbiamo voluto imprimere un’accelerazione ma nel segno della continuità” spiega Calderoli; con la scelta di tenere come riferimento l’articolo 116 della Costituzione “abbiamo impostato un percorso amministrativo certo”. L'obiettivo dichiarato è di completare l’iter della legge e la definizione del Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, tramite Dpcm entro la fine del 2023.
Non mancano le polemiche nella maggioranza. Le opposizioni attaccano
Dopo la prova della manovra, la tensione nella maggioranza è palese nonostante le smentite. “La proposta sullo scudo penale nasce da uno studio interministeriale, promosso dal Mef e dal ministero della Giustizia” e “non è affatto un condono”, chiarisce il viceministro alla Giustizia Francesco Paolo Sisto; “All'interno di Forza Italia non c'è nessun malumore. C'è ovviamente un confronto tra le forze di maggioranza, perché ognuno ha una visione leggermente diversa, altrimenti saremmo un partito unico”, assicura uno dei relatori della legge, l'azzurro Roberto Pella. “La Commissione Bilancio ha svolto un ottimo lavoro. La maggioranza è stata compatta e, devo dire, l'opposizione non ha svolto ostruzionismo”, è la versione di Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera. “Non ci sono malumori con FI. L'emendamento sullo scudo fiscale non è mai stato depositato. Ci sono opinioni o riflessioni, ognuno tenta di dare il proprio contributo alla manovra”, taglia corto il collega di partito Giovanni Donzelli. Ma le polemiche dell'opposizione non si placano: “Cinque giorni sprecati, emendamenti non affrontati, una coalizione preoccupata solo di trovare un accordo che superasse le loro spaccature, altro che bisogni del Paese”, attacca Matteo Richetti, capogruppo di Azione-Italia Viva. “Non hanno sfasciato i conti: questo è il risultato migliore. Sul resto vedo una collezione di marchette da far impallidire le manovre della prima repubblica”, rincara la dose il leader di IV Matteo Renzi; “Siamo sorpresi dall'incompetenza che questo Governo e questa maggioranza stanno dimostrando. Hanno presentato un testo per la manovra il 15 dicembre, lo stanno riscrivendo a pezzi e lo stanno riscrivendo male. Quindi c'è un problema sia dal punto di vista tecnico di come scrivono le norme, si sono contraddetti più volte, ma anche dal punto di vista politico e culturale”, chiosa il leader del M5S.
La Camera è a un passo dall’approvazione in prima lettura della manovra
È una corsa contro il tempo alla Camera per approvare la legge di bilancio entro la Vigilia di Natale, per poi lasciare la parola al Senato, che dovrà licenziare la manovra in via definitiva entro il 31 dicembre così da scongiurare l’esercizio provvisorio. Nella notte di martedì la Commissione Bilancio ha approvato il testo e giovedì sera il Governo, verso le 20.30, ha posto la questione di fiducia, tramite il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, sul provvedimento uscito dalla Commissione in seguito ai rilievi della Ragioneria dello Stato. La votazione sulla fiducia avrà inizio venerdì alle 20:30, mentre le dichiarazioni di voto cominceranno alle 19.00. Tra questa notte e sabato mattina, l’aula approverà poi il testo della manovra dopo aver discusso gli ordini del giorno. Dopo la discussione generale di giovedì mattina, l'esame in aula è continuato a singhiozzo, in un clima di tensione tra maggioranza e opposizione: alla fine, dopo varie interruzioni per definire con esattezza il perimetro delle modifiche indicate dalla Ragioneria, l'aula a metà pomeriggio ha approvato la richiesta di rinvio in Commissione della legge di bilancio, avanzata dal presidente della Commissione Bilancio Giuseppe Mangialavori. A saltare o a subire modifiche, per problemi di coperture, non solo l'emendamento del Pd che stanziava 450 milioni per i Comuni (approvato per errore in Commissione, per stessa ammissione della maggioranza), visto che dal ministero dell'Economia e delle Finanze sono giunte altre 44 correzioni relative ad altrettanti emendamenti.
La Meloni dice no al Mes e parla della revisione del patto di stabilità
Giorgia Meloni dice no all'uso del Mes, ammette e anzi rivendica le “frizioni con la Francia” sui migranti, ribadisce il pieno sostegno all'Ucraina, chiede un Patto Ue che sia “meno di stabilità e più di crescita”. Giovedì sera la presidente del Consiglio è volata in Iraq dove ha portato il saluto ai militari italiani, ma prima ha affrontato una giornata densa di impegni: gli auguri di Natale ai suoi parlamentari e ai dipendenti di Palazzo Chigi, l'intervento alla XV Conferenza delle ambasciatrici e degli ambasciatori alla Farnesina, la prima intervista televisiva da premier nel salotto di Bruno Vespa. Del Mes, il fondo salva-stati, la Meloni parla proprio a Rai1 e senza mezzi termini assicura: “Finché io conto qualcosa l'Italia non accederà al Mes, lo posso firmare col sangue”. Per quanto riguarda la ratifica, però, è più cauta, anche perché se l'Italia dicesse no sarebbe isolata in Europa. Altro tema su cui l'Italia può “fare la differenza” nei prossimi mesi è quello della revisione del Patto di stabilità. Fino a ora, ha detto la premier ai diplomatici, “è stato più stabilità che crescita e invece deve essere più crescita e meno stabilità”. Su questo il Governo interverrà facendo “sentire la sua voce senza arroganza e con spirito costruttivo ma con la consapevolezza, che non sempre ho letto, di quello che rappresentiamo, della nostra forza reale”.
Bossi vede Fontana e rilancia il Comitato Nord: gelo di Salvini
Il Comitato Nord sia riconosciuto come lista autonoma all'interno della coalizione di centrodestra che sostiene la ricandidatura del leghista Attilio Fontana alla presidenza della Regione Lombardia. La richiesta arriva da Umberto Bossi, giunto martedì mattina a sorpresa a Palazzo Pirelli durante la seduta del Consiglio regionale dedicata al bilancio, un blitz in piena regola che rende ufficiale la rottura con la Lega di Matteo Salvini. In una saletta laterale dell'Aula consiliare del Pirellone, Bossi incontra Antonello Formenti, Massimiliano Bastoni, Federico Lena e Roberto Mura, i quattro consiglieri lombardi espulsi da via Bellerio per aver dato vita al gruppo consiliare Comitato Nord; presenti anche Paolo Grimoldi e Angelo Ciocca, i due referenti della corrente lanciata da Bossi dopo le politiche del 25 settembre e diventata nei giorni scorsi un'associazione. A salutare il Senatur arriva anche Fontana. Ed è a lui che “il presidente a vita della Lega Nord”, come riporta una nota finale, rivolge una richiesta: quella di farsi parte attiva con gli alleati per riconoscere il Comitato Nord come lista all'interno della coalizione che lo appoggia nella corsa al bis a Palazzo Lombardia. I componenti del Comitato hanno “ribadito la volontà di sostenermi e di sostenere il centrodestra, riferirò questa disponibilità ai miei alleati del centrodestra”, spiega Fontana. “Ma quale scissione e scissione dell'atomo? La Lega è assolutamente in forze e in forma. Le polemiche locali non mi sfiorano, non mi occupo di liste”, minimizza dal canto suo Matteo Salvini.
Primo confronto fra i candidati alla segreteria del Pd
Dalla sua nascita nel 2008 il Pd ha perso 7,5 milioni di voti e, dopo le elezioni del 25 settembre, è in caduta libera nei sondaggi, senza contare quelli che saranno gli effetti del Qatargate. È questa l'atmosfera in cui si svolge il primo confronto tra i candidati alla segreteria del Pd, Stefano Bonaccini, Paola De Micheli ed Elly Schlein, un dibattito ampio da cui emerge la necessità di non liquidare il Partito Democratico, ma ancorarsi alle sue radici per affrontare nuove sfide e, soprattutto, scongiurare eventuali scissioni. Il dibattito tra i tre candidati è piuttosto stringato. “Guai a fare la fotocopia del M5S e Terzo Polo”, dice Bonaccini, “noi siamo una forza laburista”, dobbiamo “tornare a fare il Pd e riprenderci lo spazio di un partito a vocazione maggioritaria. Avverto anche io pulsioni al cambiamento con connotati regressivi” e “contrasterò questa tendenza” che segnerebbe “la fine del Pd”. Paola De Micheli, molto critica sulla costituente, insiste sulla necessità di anticipare la data del Congresso e rilancia sui temi: “Cambiamo lo statuto in statuto dei lavori” e rendiamo il “femminismo” parte “sostanziale” del dibattito, “non formale come accaduto anche nella nostra comunità”, l'affondo. Elly Schlein, che non si sente affatto un'outsider, usa toni concilianti: “Non siamo qui per fare una resa dei conti ma per costruire il nuovo Pd e farlo insieme, salvaguardare il suo prezioso pluralismo ma senza rinunciare a un'identità chiara, a un profilo netto”.
I sondaggi della settimana
Negli ultimi sondaggi realizzati dall'Istituto SWG il 19 dicembre, Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni si conferma il primo partito italiano, con il 30,6%, davanti al Movimento 5 Stelle (17,4%). Continua il calo del Partito Democratico che si ferma al 14,7%, il valore più basso mai registrato dal partito nelle rilevazioni demoscopiche nazionali. Da sottolineare come il distacco tra FdI e la seconda forza politica nazionale (M5S) sia pari a 13,2 punti percentuali. Nell’area delle sinistre, la lista rosso-verde Alleanza Verdi e Sinistra è stimata al 4,0%, mentre Unione Popolare all’1,8%. Nell’area centrista, l’alleanza tra Azione e Italia Viva si attesta al 7,8%.
Nella coalizione del centrodestra, la Lega conferma il trend positivo delle ultime settimane, arrivando al 9,0%. Forza Italia appare invece pressoché stabile al 6,1%. Italexit di Paragone, infine, è data al 2,2%.
La stima di voto per la coalizione di centrodestra (Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia) cresce dello 0,4% rispetto alla scorsa settimana, passando dal 45,3% al 45,7% mentre il centrosinistra, formato da PD, +Europa e Alleanza Verdi-Sinistra, rallenta ancora, fermandosi al 21,5%. Il Polo di centro, composto da Azione e Italia Viva, appare stabile al 7,8%. Fuori da ogni alleanza il M5S che si attesta al 17,4%.