Nel corso della giornata del 28 novembre, presso la Biblioteca della Camera dei Deputati, si è tenuta la presentazione del Report “Comprendere la radicalizzazione jihadista. Il caso Italia”, predisposto dalla European Foundation for Democracy e da Nomos Centro Studi Parlamentari. Nel corso dei lavori si sono succeduti tre panels, presieduti da personalità provenienti da diversi settori della società: accademici, ricercatori, forze dell’ordine, magistratura e associazioni che hanno sottolineato come, data l’importanza crescente che sta acquisendo il tema della radicalizzazione jihadista anche nel nostro paese, sia fondamentale il contributo e la collaborazione tra diverse realtà.
Panel I: Comprendere le origini della violenza
La Dott.ssa Licia Soncini, Presidente di Nomos, ha aperto la conferenza evidenziando come la tematica in questione sia strategicamente rilevante per il nostro Paese, dal momento che l’Italia si trova in una situazione di positivo ritardo rispetto ad altri contesti europei sul versante della violenza jihadista. Le seconde e terze generazioni di migranti musulmani, quelle generazioni che hanno maggiormente ingrossato le fila dei Foreign Terrorist Fighters verso teatri di guerra quali la Siria o l’Iraq, costituiscono infatti un numero ancora ridotto in Italia rispetto ad altri Paesi europei.
La migrazione proveniente da Paesi di fede islamica si è sviluppata maggiormente in Italia a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 del Novecento, quando migranti provenienti perlopiù dal Nord Africa giunsero nel nostro Paese generalmente per motivazioni economiche, con il fine principale di inviare denaro alle proprie famiglie e, in misura assai minore, per motivi politici. Questo ritardo demografico consente al nostro Paese di poter trarre insegnamento dalle buone e dalle cattive pratiche già implementate in altri Paesi d’Europa. Nei primi anni del nuovo secolo, la presenza musulmana ha iniziato ad assumere dimensioni di maggiore rilievo andando a rappresentare oggi circa il 4% della popolazione italiana. Il corso del nuovo millennio è stato in effetti caratterizzato da una consistente ondata migratoria proveniente dai paesi della sponda Sud del Mediterraneo e dal Medio Oriente, dovuta anche all’instabilità economica e politica seguita alla crisi globale economico-finanziaria del 2008 prima, e alle c.d. “Primavere arabe” poi. Il 2015, in particolare, ha costituito un punto di svolta nelle politiche migratorie europee a causa dell’elevato numero di richieste di asilo che il conflitto siriano ha generato. Le molte difficoltà riscontrate nel gestire tali flussi sono state spesso utilizzate per diffondere messaggi polarizzanti e riaccendere discorsi razziali che, in ultima istanza, costituiscono un terreno fertile alla radicalizzazione e al reclutamento di individui da parte di organizzazioni terroristiche.
Proprio su questo aspetto è intervenuto il Dott. Francesco Farinelli, coordinatore e responsabile scientifico dello studio condotto, sostenendo come sia fondamentale la comprensione di cosa vi sia dietro alla manifestazione della violenza, ultimo stadio di un percorso spesso lungo e complesso. Comprendere senza demonizzare né giustificare in alcun modo chi decide di usare la violenza fisica o la diffusione di messaggi di odio e di divisione sociale per raggiungere fini politici è infatti alla base di ogni possibile intervento di prevenzione della radicalizzazione. Il dott. Farinelli ha poi presentato alcune similitudini con il terrorismo politico italiano degli anni Settanta e Ottanta rispetto allo scontro generazionale che, anche in quel frangente storico, vide uno scontro “padri-figli” e la presenza di una forte “zona grigia” composta da una nutrita platea di simpatizzanti e di fiancheggiatori.
Prestare attenzione al cosiddetto “estremismo non violento”, composto da una galassia di attori e organizzazioni che non usano violenza fisica ma la cui ideologia minaccia i valori delle democrazie europee e dei diritti umani appare essere fondamentale per prevenire le derive violente. È molto importante, ha proseguito Farinelli, contrastare le narrative estremiste che sfruttano sentimenti di disagio, di frustrazione, di ingiustizie (reali o solo percepite) e di mancata realizzazione sociale per veicolare nelle menti dei più giovani un dato ideologico intollerante, totalitario e violento che può essere riassunto in una delle frasi ricorrenti nei procedimenti penali analizzati: “Ha successo chi muore martire”. Una narrativa che propone di raggiungere il successo e il paradiso attraverso la formula che è stata ben espressa in lingua inglese: “from zero to Hero”.
All’intervento di Farinelli è seguita l’analisi del Dott. Francesco Bergoglio Errico, antropologo e ricercatore, il quale ha esposto le caratteristiche dei 54 individui sottoposti a procedimento penale in Italia. L’antropologo ha fornito un resoconto dettagliato rispetto alla classe sociale, l’età, il genere e la provenienza delle persone analizzate nel Report, fornendo un quadro complessivo ben strutturato e propedeutico alla comprensione dei soggetti stessi. Ricollegandosi al ruolo delle prime e seconde generazioni ha inoltre sottolineato come nei procedimenti penali analizzati (2004-2018) non siano presenti terze generazioni di immigrati musulmani e di come occorra prestare attenzione ai più giovani affinché non cadano vittime dei cosiddetti predicatori dell’odio. Il Dott. Bergoglio Errico ha infine concluso il suo intervento con un excursus sulle principali differenze tra al-Qa’ida e IS, introducendo il tema del ruolo delle donne nelle organizzazioni jihadiste.
Cambiando il focus della discussione, il Dott. Enrico Colarossi, analista senior della European Foundation for Democracy, ha posto l’attenzione sulle differenze tra al-Zarqawi, leader della al-Jamāʿat al-Tawḥīd wa l-Jihād e ideologo di al-Qa’ida in Iraq (che sarebbe poi diventata lo "Stato Islamico dell’Iraq" (ISI), e Osama Bin Laden, ex leader di al-Qa’ida. Nonostante le molte similitudini, infatti, la strategia portata avanti dai due terroristi era diversa: il primo si concentrava principalmente sui nemici interni alla Dar al-Islam e propugnava l’istituzione dello Stato Islamico, mentre il secondo vedeva come obiettivo principale la guerra ai crociati occidentali, primi fra tutti gli americani. Il Dott. Colarossi ha poi sottolineato come vi siano delle differenze nelle due organizzazioni terroristiche anche sul piano del reclutamento: la preparazione religiosa e l’addestramento, caratteristiche che hanno a lungo disegnato le esigenze di al-Qa’ida, raramente sono state prerogative fondamentali per IS. Con l’avvento del califfato, in effetti, la priorità diventa l’espansione territoriale e il perdurare dello “Stato Islamico”, obiettivi ai quali tutti possono partecipare giurando fedeltà al Califfo. Ne è conseguito un utilizzo spregiudicato dei social networks e delle cosiddette “madrasse telematiche” nonché un aumento considerevole di attentati terroristici in suolo europeo privi di un coordinamento centrale e affidati all’azione del singolo adepto.
Il primo panel è stato concluso dall’intervento della Professoressa Anna Maria Cossiga, antropologa: dopo aver introdotto cosa si intenda per “antropologia culturale”, la sua analisi si è rivolta al tema della cultura e della diversità umana illustrando come, fondamentalmente, tale diversità consista nel rispondere in modo diverso alle medesime domande comuni a tutto il genere umano. Ogni essere umano ha infatti gli stessi bisogni e le stesse esigenze; ciò che muta è la risposta a questi bisogni. La professoressa ha continuato interrogandosi sull’associazione tra jihadismo e Islam, illustrando come quest’ultimo non sia solo una religione ma un mondo culturale, una maniera quindi di vivere e di rispondere alle domande. Non tutti, come specificato dalla docente, usano quella cultura nello stesso modo: «la cultura è come una cassetta degli attrezzi, a seconda di chi li usa possono funzionare in modo diverso». Islam e jihadismo, dunque, non sono equivalenti ma i gruppi jihadisti usano alcuni strumenti propri dell’Islam per raggiungere i propri obiettivi politici. In conclusione, la Prof.ssa Cossiga ha posto due interessati questioni: una relativa all’importanza dei sogni per i musulmani radicalizzati, riscontrabile anche dai materiali dei procedimenti penali esposti nel report, l’altra relativa al ruolo e alla partecipazione attiva delle donne, troppo spesso rappresentate solo come attrici passive o mere vittime, il che non corrisponde ai dati di cui si dispone.
Panel II: il sistema di prevenzione della radicalizzazione
Il secondo panel si è aperto con l’intervento del Magistrato Maurizio Romanelli, il quale ha evidenziato come il Legislatore italiano abbia affrontato con buona tempestività le nuove sfide poste dal terrorismo di matrice jihadista e dal fenomeno dei Foreign Terrorist Fighters ponendosi come esempio anche per altri Paesi europei. Nonostante ciò, ha aggiunto il magistrato, resta ancora inadeguato il sistema di prevenzione della radicalizzazione in ambito educativo e culturale a fronte di un fenomeno che può essere efficacemente contrastato solamente attraverso un approccio multidimensionale che sappia coinvolgere attivamente anche la società civile.
La parola è passata quindi al Generale Pasquale Angelosanto, Comandante del Raggruppamento Operativo Speciale dell’Arma dei Carabinieri. Rispetto alla modalità di espressione della minaccia, il Generale Angelosanto si è soffermato principalmente sul tema del rientro dei Foreign Terrorist Fighters nei Paesi europei e su quei soggetti che non hanno un collegamento diretto con cellule terroristiche internazionali. Dopo avere esplicitato come il metodo operativo investigativo e le azioni di contrasto cambino in base al gruppo terroristico e all’evolversi della minaccia, il Generale Angelosanto ha infatti evidenziato la pericolosità dei cosiddetti “lone wolf” considerando anche quanto breve sia il tempo che sovente intercorre tra la decisione di commettere un attentato terroristico e la sua effettiva messa in atto. Anche per questo, ha proseguito Angelosanto, è importante riuscire ad agire sul processo di radicalizzazione il quale, in genere, ha una durata molto più lunga. A tal proposito, il Comandante dei ROS ha sottolineato come il nostro sistema normativo consenta di intervenire prima che il soggetto compia un attentato. Il merito di questo sistema organizzativo lo si deve in primis all’esperienza italiana legata al terrorismo di destra e di sinistra degli anni Settanta e Ottanta ma anche al recepimento della Risoluzione Onu 2178, la quale delinea un approccio preventivo rispetto al fenomeno del terrorismo. Quale spunto di riflessione finale, Angelosanto ha evidenziato come la figura del radicalizzato deluso, partito e poi tornato dai territori del califfato, potrebbe costituire l’immagine per una buona contro-narrazione alla propaganda dello Stato Islamico.
A questo punto del convegno è intervenuto il Dott. Augusto Zaccariello, Comandante del Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria che ha illustrato la situazione attuale nelle carceri italiane, uno dei luoghi maggiormente toccati dal fenomeno della radicalizzazione jihadista. Secondo i dati riportati dal Dott. Zaccariello, nelle carceri italiane, su 60.000 detenuti 20.000 sono stranieri; di questi, 13.000 provengono da paesi musulmani e 8.000 dichiarano di professare la religione islamica. Per affrontare in modo risolutivo il problema della radicalizzazione in carcere, il rischio è stato suddiviso in tre livelli distinti: nel primo vi rientrano i detenuti legati a reati di terrorismo, nel secondo vi rientrano quelle persone che hanno palesato una oggettiva vicinanza a elementi radicali e nel terzo, detto “limbo”, sono inclusi quei soggetti che mostrano evidenti segnali di radicalizzazione. Il metodo utilizzato è quello di un semplice ma massiccio monitoraggio, il quale ha avuto un riscontro effettivo per quanto riguarda il terrorismo interno, al quale segue una registrazione e una schedatura dei fatti.
L’ultimo contributo di questo panel è stato dato dal Dott. Claudio Galzerano, Dirigente Superiore della Polizia di Stato, il quale ha riflettuto sulla dimensione politica del fenomeno esplicitando la grande importanza che i decisori politici rivestono affinché efficaci misure di prevenzione della radicalizzazione possano effettivamente essere messe in atto. Richiamando l’importanza delle misure delle espulsioni nei confronti di persone giudicate pericolose per la sicurezza del Paese e dei provvedimenti di limitazione della libertà personale di alcuni soggetti impossibilitati ad essere espulsi, il dott. Galzerano ha evidenziato come non sia possibile affrontare però del tutto efficacemente questo fenomeno senza un’azione di prevenzione che parta dal basso: non dai soggetti radicalizzati, ma dalle basi sociali, politiche e ideologiche all’origine della radicalizzazione.
Proprio in merito a questo è intervenuto, alla fine del convegno, in un confronto con la Dott.ssa Roberta Bonazzi, Presidente della European Foundation for Democracy, il Dott. Yahya Pallavicini, Imam e presidente della COREIS, la Comunità Religiosa Islamica Italiana. La COREIS si è sempre distinta, negli anni, per il dialogo interreligioso con la realtà ebraica e cristiana italiana. La conversazione tra la Dott.ssa Bonazzi e il dott. Pallavicini ha evidenziato l’importanza di un dialogo costruttivo tra le Istituzioni del Paese e la società civile, ivi compresa quella parte della comunità musulmana italiana moderata che ha a cuore i valori delle democrazie occidentali. Di grande importanza, inoltre, nell’ambito della prevenzione della radicalizzazi one jihadista, è il tema della scelta dei partner. Esistono organizzazioni che nascondono agende i cui obiettivi vanno in direzione opposta rispetto a quelli dichiarati ufficialmente. È fondamentale, secondo i due relatori, operare un’attenta selezione dei partner proprio per non correre il rischio di potenziare voci antidemocratiche.
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